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L’unica prova, senza deduzioni logico fattuali, sulla presunta trattativa è il mancato rinnovo del 41 bis a oltre 300 soggetti da parte dell’ex ministro della giustizia Giovanni Conso. Ma nel corso dell’udienza del processo d’appello sulla trattativa Stato- mafia di lunedì scorso, sono emersi chiarimenti da parte del teste Andrea Calabria ( ex direttore dell’ufficio detenuti del Dap) che rischiano di indebolire ulteriormente la prova.
Partiamo però dalla tesi della condanna di primo grado. Secondo l’accusa, la sostituzione dell’allora direttore del Dap Nicolò Amato con Adalberto Capriotti costituì il tentativo di mettere alla guida del Dipartimento un uomo che avrebbe garantito il suo sostegno al dialogo sul carcere duro ai boss avviato da parte dello Stato con la mafia. Per evitare nuove stragi e omicidi eccellenti, sempre secondo i pm, pezzi delle istituzioni avrebbero trattato con Cosa nostra concedendo un alleggerimento dei 41 bis realizzato, nel novembre del ’ 93, con la mancata proroga di oltre 300 provvedimenti di carcere duro.
Il presidente della Corte Angelo Pellino ha approfondito il tema, ponendo specifiche domande a Calabria, relative a vari documenti anche da lui sottoscritti, divergenze all’interno del dipartimento, prassi che seguivano l’iter della concessione della proroga o meno ai detenuti al 41 bis ed eventuali pressioni ricevuti in merito ai decreti relativi alla proroga. L’ex direttore dell’ufficio del Dap ha innanzitutto chiarito la situazione della gestione dei detenuti al 41 bis.
Parliamo del periodo nel quale, la misura, era ancora di carattere emergenziale e la procedura per rinnovare o meno il 41 bis non era ancora ben definita. E, di fatto, come ha spiegato Calabria, in quel periodo ci furono numerosi interventi da parte dei tribunali di sorveglianza, tanto da poi scaturire la famosa – ma poco citata – sentenza della Corte costituzionale la quale aveva espressamente indicato di valutare caso per caso i soggetti prossimi alla data del rinnovo del 41 bis. Lo stesso ministro Conso si attenne alle indicazioni. Calabria ha spiegato che con il suo ex capo del Dap Francesco Di Maggio non scorreva buon sangue. Lo ha descritto come un accentratore, poco incline alla collegialità e non amante della burocrazia.
Un comportamento che creava tensione. Ma non sul 41 bis, dove – ha dichiarato – non ha ricevuto alcuna pressione. Il ruolo di Calabria era di tipo tecnico giuridico. Lui stesso, di concerto con gli altri esponenti del Dap, ha emanato note relative alla detenzione del 41 bis. Così come, man mano che i decreti arrivavano a scadenza, era costretto – visto che ancora la norma non era chiara– a chiedere informazioni sui singoli detenuti alla Dia, all’allora Sco, tribunali e distretti antimafia.
In una nota del 29 giugno del ’ 93 - che durante il processo di primo grado aveva sollevato inquietanti quesiti -, lo stesso Calabria, in merito all’eventuale mancate proroghe, scrisse che sarebbe servito come “atto di distensione”. Ma l’ex direttore dell’ufficio detenuti ha chiarito bene a cosa si riferiva tale espressione. All’epoca erano tantissimi i detenuti al 41 bis, tanto da provocare all’interno delle carceri che ospitavano le sezioni, un grave sovraffollamento visto che occupavano celle che prima servivano per i detenuti comuni. Ciò creava problemi di gestione.
Quindi per “distensione”, si intendeva una questione interna. Nulla a che vedere con dei segnali di distensione nei confronti della mafia. Come detto, l’ex ministro Conso, in linea con il dettato della Consulta, non ha prorogato il 41 bis a 334 detenuti, i quali non erano mafiosi di grosso calibro. Calabria ha anche voluto sottolineare che rimanevano comunque in una sezione di alta sicurezza, per poi rimandarli al 41 bis se sorgevano altri elementi che ne accertassero l’esigenza.