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ALBERTO MICHELE CISTERNA MAGISTRATO
«Memorie dal sottosuolo» sarebbe da titolare la storia della magistratura italiana degli ultimi due decenni. Senza la cupa visione di Fëdor Dostoevskij sulla fragilità umana, ma comunque nella consapevolezza che la stragrande maggioranza delle toghe italiane si trova a vivere le conseguenze di una “spedizione punitiva” che la politica ha intrapreso, e che intende portare a termine, pur non avendo colpe particolari da scontare o peccati originali da emendare. Un sottosuolo fatto di cunicoli stretti e polverosi, di strettoie impraticabili e senza luce. Con migliaia di fascicoli da gestire, personale esiguo su cui contare, sistemi informatici obsoleti e precari da adoperare, con un’avvocatura in bilico tra rassegnazione e rivolta che assiste sfiduciata a un declino che inevitabilmente la coinvolge e la risucchia.
Questa magistratura non ha alcuna responsabilità per la gestione dei processi che - assurti al clamore delle cronache - sono falliti alla prova giurisdizionale, si sono arenati in indagini abortite, sono inciampati nelle prove nascoste. Basterebbe ricordare agli “assolti” di oggi le entusiastiche elegie e i tête- à- tête di ieri, per rammentare loro che le colpe devono essere ampiamente condivise.
Le toghe più che una separazione delle carriere avrebbero bisogno di una netta separazione tra capaci e incapaci, tra spericolati giocolieri e severi scrutinatori di carte, tra ambiziosi al soldo di una certa stampa e taciturni artigiani della decisione. Per attuare questo “vasto programma” sarebbe sufficiente costringere chi aspira a incarichi di rilievo, o anche solo ambisce di proseguire il proprio lavoro, a segnalare nei propri curricula anche l’esito dei processi di cui si è occupato, senza lasciare al Csm o a qualche antagonista il compito della rilevazione o della delazione.
Per carità un controllo del genere sarebbe pure previsto, ma sanno tutti che è approssimativo e procede a spanne; così che le schede di valutazione trasudano di indagini e di arresti, poi finiti in bolle di sapone, ma entusiasticamente allestiti da chi ha interesse. Il crivello delle valutazioni e delle promozioni dovrebbe essere fine e, inevitabilmente, infastidisce e mette ansia. Si dice: «ma esiste il libero convincimento» oppure «il sistema opera su tre gradi di giudizio e le oscillazioni, anche clamorose, sono inevitabili». Giusto, ma che il convincimento sia libero non vuol dire che sia per ciò solo anche giusto e il processo pretende di rimediare alle ingiustizie, non punta certo a coartare il pensiero altrui.
La separazione delle carriere, da questo punto di vista, non serve a nulla. Anzi. Pubblici ministeri valuteranno pubblici ministeri, giudici valuteranno giudici e in splendida solitudine si monderanno di ogni peccato e di ogni infamia e si può forse profetizzare con il principe di Salina: «chi ci sostituirà saranno gli sciacalli, le iene. E tutti quanti, gattopardi, leoni, sciacalli o pecore, continueremo a crederci il sale della terra».
Le correnti in tanto hanno deviato dal loro, insostituibile e irrinunciabile, percorso culturale in quanto hanno inteso per troppo tempo essere onnivore; hanno preteso di metabolizzare tutta la magistratura italiana senza badare troppo alle qualità di adepti e sostenitori. Un pericoloso “uno vale uno” che ha portato a perdonare folgoranti carriere basate su indagini farlocche, claque mediatiche e supporter interessati a inserirsi nella mainstream dei vincitori. In fondo lo sanno tutti, al netto di ipocrisie e fariseismi, nessuno era esente dalle ingordigie dell’Hotel Champagne; un’inaspettata Caporetto della magistratura italiana che, lungi dall’essere stata il frutto di un nemico astuto e geniale (il tenente Erwin Rommel nel 1917), è apparso piuttosto una porzione avvelenata con cui fazioni di toghe in lotta hanno ( provvisoriamente) regolato i propri conti.
Nel sottosuolo, intanto, centinaia di instancabili toghe, tutti i giorni affrontano i disagi, le precarietà, i tormenti di una funzione resa complessa da una società multipolare che sviluppa una domanda enorme di giustizia che deve essere soddisfatta.
La chiamata alle armi contro la riforma che il Parlamento intende approvare, l’intenzione di essere addirittura parte attiva della probabile campagna referendaria, sconta – oggi – un problema ulteriore di cui la politica non tiene alcun conto. Stanno inserendosi e si inseriranno nei ranghi della magistratura centinaia e centinaia di nuovi giudici in pochissimi anni. Occorre riconoscere al Ministero della giustizia di aver portato a segno un compito immane su questo versante, con bandi a ripetizione per assumere nuovi giudici ( l’ultimo, di pochi giorni or sono, prevede altre 350 assunzioni). Un’opera, invero, straordinaria che rischia però di immettere negli uffici – soprattutto in quelli di frontiera – magistrati “cicatrizzati” dalle fiamme dello scontro in atto; giustamente esaltati dall’importanza delle funzioni loro assegnate e profondamente frustrati dalla ruvidezza (talvolta ingiuriosa) degli attacchi all’intera corporazione. Sono, saranno le toghe del futuro, la giustizia sarà nel giro di pochi anni nelle loro mani - nelle procure e nei tribunali – e non si può e non si deve né addestrarli alla battaglia e alla contrapposizione con la politica, né coinvolgerli indistintamente in un attacco per errori e manchevolezze che hanno precisi nomi e cognomi, padrini e padroni. Oddio, anche madrine e padrone, woke culture.