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Anni di attesa per dare certezza ai tempi delle indagini, per proteggere in modo accettabile le intercettazioni dal volantinaggio mediatico, per riformare il Csm. Anni inutili, tentativi numerosi, eroici, ma inutili.
Tutto si sblocca all’improvviso, anche per un motivo: perché ventisette anni dopo, lo schema di Tangentopoli si capovolge e scaraventa le toghe nel cuneo cupissimo di una piramide rovesciata, come nell’iconografia dell’inferno dantesco. C’è voluta cioè una simil- mani pulite della magistratura per spalancare la diga delle riforme. Come se solo la debolezza provocata dagli scandali consentisse di riformare un certo ordine, o potere, dello Stato.
Fatto sta che dal vertice dell’altra notte tenuto sulla giustizia dal premier Conte, dai vice Di Maio e Salvini e dai ministri Bonafede e Bongiorno esce fuori un’inedita batteria di conseguenze disciplinari per pm e giudici che sbagliano.
A ben guardare è questo il tratto dominante nella riforma della giustizia che comincia a profilarsi. Il guardasigilli Bonafede ha infatti accolto una sollecitazione della collega Bongiorno — titolare della Pa ma figura imprescindibile, nella Lega, quando si tratta di processi e ordinamento giudiziario: ebbene, la ministra del Carroccio ha ottenuto il sì di massima del M5s sulle sanzioni disciplinari per i pm che non rispettano le soglie temporali delle indagini.
Già nella scorsa legislatura, Cnf e Ucpi chiesero che venisse assicurato il rigoroso rispetto dei tempi d’iscrizione degli indagati nell’apposito registro, con l’ipotesi che il capo dell’ufficio fosse vincolato a segnalare le violazioni dei suoi sostituti al titolare dell’azione disciplinare. Poi passò la soluzione ( di ripiego) delle avocazioni, da parte dei pg, dei fascicoli dormienti. Ora, nella parte “penalistica” della legge delega sul processo messa a punto da Bonafede, il magistrato inquirente dovrà rispettare tre limiti di durata massima ( diversi a seconda della gravità del reato) delle indagini preliminari, limiti prorogabili per non più di 6 mesi.
Se non trasmettesse l’avviso di chiusura ( o se non chiedesse l’archiviazione) nei tempi stabiliti, il fascicolo sarebbe messo a disposizione della difesa così com’è, novanta giorni dopo, e per il pm tardivo scatterebbero appunto le segnalazioni ( con eccezioni, motivate in modo specifico, solo in casi di estrema complessità). Un quadro allarmante per le toghe che ora, col clima pesante generato dal caso Palamara, non hanno certo la forza di ribellarsi.
Non solo. Perché segnalazioni ai titolari dell’azione disciplinare potrebbero essere previste addirittura di fronte alle violazioni degli uffici in materia di intercettazioni. Sorpresa anche questa. Bonafede insiste sul fatto che «i brani con notizie di interesse pubblico devono poter essere conosciute attraverso i giornali».
Ma ancora ieri Salvini ha detto che sì, si tratta di «uno strumento utile», ma «le intercettazioni devono essere usate solo se hanno rilievo penale». E ha aggiunto: «Su questo mi pare che anche Bonafede sia d’accordo: il gossip lo vai a leggere sulla stampa scandalistica». Dov’è il punto di equilibrio? In parte lo chiarirà il vertice a via Arenula previsto per oggi con il presidente del Cnf Mascherin e il numero uno dell’Ordine dei giornalisti Verna.
Ma si profila un limite alla possibilità di richiamare, negli atti, brani che contengano non informazioni penalmente rilevanti ma solo scambi privatissimi. Senza intervenire dunque con sanzioni ai cronisti ma eventualmente con riverberi disciplinari, anche qui, per il magistrato che scambiasse una richiesta o un’ordinanza cautelare per un articolo da magazine rosa.
A queste sorprese si aggiungono altri segnali di caduta in disgrazia dei magistrati. Innanzitutto la legge che punirebbe chi, tra loro, fosse responsabile di ingiuste detenzioni, testo in arrivo nell’aula della Camera dopo il voto unanime in commissione. Altro segnale, voluto con forza dal Movimento 5 Stelle, è la versione togata del taglio dei vitalizi: «Compensi non oltre i 240mila euro per i consiglieri Csm: i cittadini non devono considerarli titolari di un privilegio», spiega sempre il guardasigilli.
E mentre le intercettazioni viaggeranno su un ddl delega di Bonafede autonomo da quello sul processo penale e civile, in quest’ultimo confluiranno, come annunciato mercoledì notte, anche la poderosa riforma del Consiglio superiore e le norme che renderanno impossibile il ritorno alla toga per i giudici che entrassero in politica.
Qui davvero si conferma l’idea della «svolta epocale» di cui parla il ministro della Giustizia. Non solo le nomine saranno determinate da una griglia «meritocratica», con punteggi ottenuti, per esempio, in base allo «smaltimento dell’arretrato» e, in negativo, con le segnalazioni disciplinari, comprese quelle per le indagini lunghe.
Non solo, perché si riaffaccia con forza l’ipotesi sorteggio per l’elezione dei membri togati. In chiave «mediata», si lascia intendere da via Arenula: ossia con una prima ampia rosa di candidati selezionata in modo random e una successiva vera e propria elezione, comunque organizzata in collegi ristretti e uninominali. Un argine alle correnti, che riprende schemi di leggi proposte in passato in Parlamento ( la più puntuale a opera di Buemi).
Fino alla draconiana preclusione ipotizzata dal guardasigilli per i togati uscenti, che non potrebbero assumere incarichi direttivi nel successivo quinquennio. La legge istitutiva del Csm, 61 anni fa, fissò il cuscinetto in “appena” 2 anni, cancellati del tutto a fine 2017. Ora si va oltre il raddoppio. Segno che i tempi, per gli equilibri fra toga e politica, sono proprio cambiati.