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Altro giorno di campagna elettorale, altro giro di frecciate velenose tra alleati di governo. Luigi Di Maio e Matteo Salvini ormai giocano al gatto e al topo, scambiandosi il ruolo all’occorrenza. A rendere turbolenta la convivenza a Palazzo Chigi adesso ci si mettono le autonomie di Veneto e Lombardia, che il Carroccio vorrebbe trasformare in realtà - a quasi due anni dai referendum regionali - aggirando i paletti imposti dai grillini.
«Inizio a notare troppi accoppiamenti tra Pd e 5 stelle, troppa sintonia», attacca a testa bassa il ministro dell’Interno, ribaltando le accuse di incuicio con Berlusconi piovute sul suo partito il giorno prima per bocca dell’altro vice premier. «Dicono no all’autonomia, no alla flat tax, no al nuovo decreto sicurezza. Qualcuno mi spieghi se il M5s vuole andare d’accordo con il Pd o con gli italiani e la Lega, rispettando il patto», aggiunge Salvini, ricordando all’alleato il senso “storico” del legame tra i due partiti di governo: cambiare l’Europa in alternativa alla sinistra. «In totale alternativa alla sinistra», sottolinea il segretario della Lega.
La replica del ministro dello Sviluppo economico - che per la prima volta nella storia del partito delle stelle dovrà chiudere una campagna elettorale senza il fondatore Beppe Grillo - è praticamente immediata. «Non c’è un capo politico che abbia attaccato il Pd come me. Il Pd è ancora più subdolo, è quello dei renziani con Zingaretti davanti, non voglio averci nulla a che fare», è la premessa di Di Maio, prima di mettere nel mirino direttamente il socio di maggioranza. «Sull’autonomia ero pronto un mese fa», dice.
«Sto chiedendo da un mese un vertice di governo, ma dopo la richiesta di dimissioni di Siri il capo della Lega l’ha presa sul personale», provoca il capo politico pentastellato, giocando probabilmente coi nervi dell’inquilino del Viminale, negli ultimi giorni apparso sensibile alle contestazioni di piazzi. «Non riconosco più Salvini», incalza Di Maio. «È come se si fosse tolto la felpa e avesse messo l’abito buono della vecchia politica, nel caso Siri si è schierato a difesa della casta», insiste nell’affondo. Prima delle autonomie regionali «bisogna cacciare i raccomandati e i figli di. Basta nomine politiche, con il ministro della Sanità Giulia Grillo per presentare la proposta di legge M5s sui criteri di nomina dei dirigenti delle Asl», prosegue il ministro del Lavoro.
Il botta e risposta non conosce soste. «Prima, prima, prima... io mantengo la parola data. Se qualcuno cambia idea o ha tempo da perdere lo spieghi agli italiani», scandisce Salvini da Verona. «Per me l’emergenza è la riduzione delle tasse e l’autonomia permette di spendere meno e spendere meglio. Poi ognuno può avere le sue priorità», dice il ministro dell’Interno.
E pensare che fino a poco tempo fa i due andavano ancora d’amore e d’accordo, sempre insieme, o al telefono, a scambiarsi pareri e condividere strategie. La campagna elettorale e i sondaggi, troppo severi coi grillini, hanno spezzato l’incantesimo e la rottura dopo le Europee appare come lo scenario più scontato. Un anno di governo trascorso a inseguire Salvini ha indebolito il Movimento, che ora prova a rifarsi. «Spero che questa cosa dei mitra finisca, dobbiamo fare cose concrete», rimarca il numero uno del M5S, convinto che la Lega si sia «spostata su posizioni di estrema destra per mobilitare i propri elettori». Luigi Di Maio non si lascia più scivolare addosso nessuna polemica. Replica a tutto con piglio piccato, e sul decreto sicurezza citato dal leader leghista nel suo affondo, risponde: «Non ci sto a passare per quello del no. Se si deve fare un decreto sicurezza 2, la fase 2 è quella dei rimpatri» e nel secondo decreto sicurezza «non ho visto nulla sui rimpatri».
Invece di fare squadra, Movimento 5 Stelle e Lega giocano ognuno con i punti deboli dell’altro. E se Di Maio ha vita facile a elencare le mancanze dell’alleato, Salvini non è da meno. «Verona aspetta anche l’alta velocità. Anche questa congelata dai dubbi di un ministro dei 5 stelle», afferma il capo del Carroccio chiamando in ballo direttamente Danilo Toninelli, compagno di porti chiusi fino alla scorsa estate. «Iniziano a essere troppi i no. I no fermano l’Italia», chiosa.
Ma come ogni giorno, dopo essersele date di santa ragione, i due leader smorzano i toni, prospettando altri quattro anni di governo insieme. Nessuno sa, in questo clima, se si tratti di una rassicurazione o di una minaccia.