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«L’ Italia vuole tornare a essere il partner più importante nel continente europeo per la più grande democrazia occidentale». Questa volta Matteo Salvini non avrà bisogno di chiamare in causa testimoni e pubblicare email tra il suo staff e la Casa Bianca per fugare ogni dubbio sui rapporti tra lui e vertici Usa. Perché il segretario della Lega adesso arriva a Washington da ministro dell’Interno di un paese alleato, accolto con i dovuti riguardi dal segretario di Stato, Mike Pompeo, e dal vice presidente Mike Pence.
Ne è passata di acqua sotto i ponti da quel giugno del 2016, quando Donald Trump negò di aver mai ricevuto il leader del Carroccio margine della convention in Pennsylvania. E pensare che il “capitano” aveva affrontato 12 ore di volo, fino a Harrisburg, solo per allacciare relazioni con l’allora aspirante candidato repubblicano.
«Non l'ho voluto incontrare», raccontò sprezzante “The Donald” al The Hollywood Reporter, costringendo Salvini a tirare fuori “le prove” per non passare da bugiardo. Ma ora il mondo è cambiato radicalmente. Un miliardario ossigenato guida la maggiore potenza globale al grido di «America first» e il leader di un piccolo partito europeo, a trazione regionalista, si è trasformato nel capo della prima forza politica nazionale urlando «prima gli italiani».
Trump e Salvini, con le rispettive proporzioni, sono diventati nel giro di pochissimo tempo i campioni del sovranismo internazionale con un nemico comune: l’Europa. Nel frattempo, il segretario della Lega ha avuto modo di affinare la propria visione del mondo anche da un punto di vista geopolitico. E pur rimanendo sostenitore delle buone relazioni tra Mosca e l’Occidente, Salvini ha lasciato ai soci di governo, al Movimento 5 Stelle, la curva riservata ai tifosi di Putin, lui si è accomodato in “tribuna atlantica”.
L’improvvisa svolta leghista diventa palese nel febbraio scorso, quando il ministro dell’Interno schiera il suo partito a favore di Juan Guaidò, autoproclamato presidente del Venezuela, a discapito del legittimo governo di Nicolas Maduro. Mentre Alessandro Di Battista e compagni si sbracciano, urlando al “colpo di Stato”, Salvini preme per convincere l’alleato a seguire - almeno in questo caso - l’esempio delle cancellerie europee e della Casa Bianca, riconoscendo la presidenza Guaidò.
I grillini non cedono, ma i russi, da sempre filo Maduro, si accorgono del “tradimento” di Matteo, fino a quel momento considerato interlocutore privilegiato per le sue posizioni contro le sanzioni a Mosca e contro Bruxelles. Ma il Venezuela non è l’unico smacco a Putin. Il vice premier con la spilletta di Alberto da Giussano sulla giacca difende la stessa trincea americana anche sul fronte iraniano, cinese e israeliano, solo per parlare degli scenari internazionali più caldi.
Il numero uno del Carroccio ha insomma cambiato ufficialmente campo. E pur ritenendo «un errore strategico allontanare la Russia dall’Occidente», il titolare del Viminale aggiunge che il vero danno sarebbe «lasciarla nelle braccia della potenza cinese», aggiunge, per rendere la sua affermazione digeribile anche a Washington. L’Italia deve rafforzare la sua storica collocazione atlantica, «e non solo per interessi economici e commerciali ma anche per una comune visione del mondo, dei valori, del lavoro, della famiglia, dei diritti», dice Salvini dall’America “deobamizzata”.
Sono tanti del resto i punti di contatto tra l’amministrazione Usa e la visione leghista. «Sarebbe troppo facile parlare di controllo dell’immigrazione e lotta al terrorismo islamico. E quindi di attenzione all’Iran e alla prepotenza cinese a suon di miliardi di euro», dice il capo del Carroccio, prima di aggiungere: «Soprattutto il tema fiscale, della riforma fiscale, del taglio delle tasse, del rilancio dell’economia locale, della difesa e protezione dell’industria nazionale. È qualcosa che vorrei, chiaramente in piccolo e fatte le debite proporzioni, che il governo italiano applicasse dalla prossima manovra economica perché i risultati stanno dando ragione a Trump», aggiunge, assicurando che al ritorno in Italia si confronterà con Conte.
E a chi fa notare al ministro la delicatezza della politica repubblicana in materia di dazi Salvini risponde candido: «Penso che l’obiettivo dell’amministrazione del presidente Trump non siano l’Italia e i prodotti italiani, mi sembra che i problemi nascano altrove, a Berlino piuttosto che a Parigi», spiega sereno.
Peccato che il presidente Usa insista anche parecchio con gli alleati Nato perché adeguino la spesa in armamenti al 2 per cento del Pil, mentre Salvini si trova a governare con un partito che preferirebbe tagliare radicalmente quella voce di bilancio per impiegare le risorse in modo differente. E schierarsi a favore degli F- 35, come fa il ministro dell’Interno, non equivale a sposare il progetto. Forse sarebbe meglio parlare con Luigi Di Maio prima di mettersi in viaggio. Perché le differenze tra M5S e Lega non spariscono d’incanto oltre l’Atlantico.