Sergio Mattarella, con il suo solito garbo istituzionale, grazie al quale sa affondare il colpo senza mai alzare i toni, ha rotto il silenzio sulle condizioni delle nostre carceri. Ha detto quello che da anni fingiamo di non sapere, ovvero che le nostre carceri sono fuori dalla Costituzione. «Abbiamo il dovere di osservare la Costituzione che indica norme imprescindibili sulla detenzione in carcere. Il sovraffollamento vi contrasta e rende inaccettabili anche le condizioni di lavoro del personale penitenziario», ha spiegato il capo dello Stato. «I detenuti - ha poi detto - devono potere respirare un’aria diversa da quella che li ha condotti alla illegalità e al crimine. Su questo sono impegnati generosi operatori, che meritano di essere sostenuti». Ma sia chiaro, le parole capo dello Stato non possono essere lette solo come una denuncia contro la politica di questo governo, che sul carcere gioca a fare il duro; no, le sue parole sono rivolte anche alle opposizioni che di fronte all’ondata di suicidi si limita a sussurrare parole di circostanza.

Mattarella ha detto chiaramente che «i detenuti devono poter respirare un’aria diversa». E dunque chi pensa che la reclusione sia una forma di vendetta istituzionale, un modo per togliere respiro ai colpevoli, è fuori dalla Costituzione. Punto. Perché, lo ricordiamo, quella stessa Costituzione parla di pene orientate alla rieducazione, all’inserimento nella società, non alla tortura psicologica e alla morte lenta.

Nel 2024, 89 persone si sono tolte la vita dietro le sbarre. Ottantanove. E ora, come ogni gennaio, la conta riparte da zero, come se quelle vite non fossero mai esistite. E se le condizioni delle nostre prigioni non cambiano, questo numero non sarà diverso a fine 2025. È una tragedia ciclica, che si ripete perché non abbiamo il coraggio di guardarla in faccia.

Il problema non è solo nei numeri, ma nella concezione stessa del carcere che ha questa classe politica, da destra a sinistra. Da una parte si soffia sulla fiamma della paura, con proclami securitari e promesse di pugno duro. Dall’altra, un’opposizione che ogni tanto si affaccia timidamente, ma non ha mai davvero spinto per un cambiamento strutturale.

Mattarella ha parlato di «operatori generosi», ovvero di coloro che lavorano nelle carceri nonostante condizioni indegne anche per loro. Ma non possiamo lasciarli soli. Non possiamo accettare che le carceri continuino a essere il buco nero del nostro Stato, il luogo dove si accumulano vite spezzate senza che nessuno si preoccupi di come ripararle.

La sicurezza non viene dal far marcire le persone dietro le sbarre. La sicurezza viene dal rieducare, dal reinserire, dal dare una possibilità a chi ha sbagliato di tornare a essere parte della società. Questo non è buonismo, è civiltà, è razionalità, è ciò che la nostra Costituzione prevede.

Il 2025 dovrebbe ripartire dalle parole di Mattarella, che ha indicato la strada con una fermezza che non lascia spazio a interpretazioni. È il momento di accendere i fari su queste zolle d’ombra, su queste “discariche umane” che nessuno vuole vedere. Il nostro compito, come cittadini e come Paese, è quello di trasformare il carcere da luogo di morte a strumento di rinascita.