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La pm Valentina Salvi
Quel rapporto tra una ragazzina di 13 anni e un uomo di 27 era consenziente e la psicoterapeuta ha omesso di dirlo all’autorità giudiziaria, facendo passare l’uomo come pedofilo. Si può riassumere così il concetto espresso dalla pm Valentina Salvi, nella quarta giornata di requisitoria del processo sui presunti affidi illeciti in Val d’Enza. Salvi ha proseguito il suo racconto sui casi di affido, ribaltando il punto di vista di assistenti sociali e psicologi, chiedendo l’assoluzione della psicoterapeuta Nadia Bolognini per i capi 57 (induzione in errore del minore), 84 (sviamento delle indagini) e 71 (alterazione dello stato psicologico ed emotivo della minore) per inutilizzabilità delle intercettazioni.
La pm ha fatto sentire in aula, anche nella giornata di ieri, spezzoni delle sedute di psicoterapia condotte da Bolognini (difesa dagli avvocati Luca Bauccio e Francesca Guazzi) per dimostrare la sua tesi: che le domande poste dalla psicoterapeuta fossero induttive e suggerenti, finalizzate ad orientare le risposte e a compromettere la genuinità delle dichiarazioni dei bambini, per puntare sempre e soltanto su abusi sessuali, a dire della pm inesistenti o comunque non ricordati dai minori.
Uno dei casi analizzati lungamente durante l’udienza è quello di M., la bambina di 13 anni che aveva avuto rapporti sessuali con un uomo di 27, ospite a casa sua e identificato come zio, rispetto alla cui vicenda Bolognini è accusata di frode in processo penale e depistaggio. Salvi, in aula, ha ribadito il concetto: nonostante per la legge italiana l’età del consenso sia fissata a 14 anni, come aveva evidenziato in aula durante il suo esame la stessa Bolognini, «era stata la ragazzina stessa - ha sottolineato la pm - a superare le resistenze del ragazzo che era stato sostanzialmente convinto da lei a consumare un rapporto sessuale». E colpa di Bolognini sarebbe stata quella di identificare tale situazione come un abuso sessuale subito dalla bambina e l’uomo come pedofilo.
Bolognini, secondo l’accusa, al fine di «sviare le indagini relative» al procedimento penale a carico di J. B., «durante le settimanali sedute di psicoterapia effettuate» con la ragazzina, avrebbe alterato «lo stato psicologico ed emotivo» della minore «sui fatti oggetto dei predetti procedimenti penali e rispetto ai presunti autori degli stessi». In particolare, «ignorando dolosamente che la minore le aveva dichiarato di essere consenziente e profondamente. Il procedimento a carico del 27enne non è mai giunto a termine, finendo nel nulla per «l’irreperibilità dell’imputato». Nessuna verità processuale sul caso, dunque, è stata possibile.
La pm ha evidenziato le presunte criticità nell’operato dei servizi sociali, che stando al suo punto di vista non avrebbero sempre agito in modo trasparente o nel migliore interesse della minore. Tra gli episodi menzionati quello in cui la ragazzina sarebbe stata costretta, a suo dire, a rimanere una notte in ospedale violando l’obbligo del consenso informato secondo la legge italiana (legge 219 del 2017): il 7 marzo 2018, infatti, M. è stata prelevata dalla scuola, portata in ospedale e sottoposta a una visita ginecologica, senza informare i genitori e «senza che neanche il personale sanitario ravvisasse la necessità di mantenere la ragazza ricoverata».
I genitori non sapevano che la visita ginecologica era già stata pianificata e non erano stati informati sul motivo dell’allontanamento. Nonostante la visita, secondo la pm, non era emerso nulla che giustificasse una necessità di protezione immediata, dato che M. aveva dichiarato di aver avuto rapporti consensuali con un altro ragazzo.
Secondo Salvi la decisione di allontanare M. sarebbe stata presa prima ancora che venissero raccolti elementi concreti a supporto dell’ipotesi di abuso. Le comunicazioni interne dei servizi sociali, infatti, dimostrerebbero - a suo dire un approccio orientato a confermare pregiudizi piuttosto che basarsi su fatti verificabili. Inoltre, le testimonianze confermerebbero che la minore, in più occasioni, avrebbe espresso il desiderio di tornare a casa, sottolineando la mancanza di motivi validi per giustificare la sua separazione dalla famiglia.
Chiesta l’assoluzione anche per Sara Gibertini, assistente sociale nell’area infanzia, per il capo 59 (induzione in errore tramite alterazione dello stato psicologico).