PHOTO
CORTE COSTITUZIONALE PALAZZO DELLA CONSULTA CONSULTA
«Il carcere non deve rappresentare l’unica risposta al reato» e anzi, «per gli effetti desocializzanti che comporta, deve essere evitato quando possibile in favore di pene da eseguirsi nella comunità». È partendo da questo presupposto che la Corte d’Appello di Firenze ha rimesso alla Corte costituzionale uno dei passaggi più spinosi della riforma Cartabia, così come segnalato dal blog “Foro e giurisprudenza”.
Con un’ordinanza del 20 marzo, i giudici della sezione distrettuale penale hanno infatti sollevato questione di legittimità dell’articolo 59, comma 1, lettera d), della legge 689/ 1981, nella parte in cui vieta l’applicazione delle pene sostitutive per i condannati per i reati di cui all’articolo 4- bis dell’ordinamento penitenziario, il catalogo dei cosiddetti “reati ostativi”, salvo che venga riconosciuta la particolare attenuante di cui all’articolo 323- bis del codice penale. Una limitazione che, secondo i giudici fiorentini, rischia di negare, a prescindere, la possibilità di accesso alle nuove sanzioni sostitutive, introdotte proprio per favorire pene più rieducative e individualizzate. E questo – è la tesi – entra in rotta di collisione con più principi costituzionali.
Il cuore della questione è tutto nella rigidità della norma, che – osservano i giudici fiorentini – impedisce al giudice di valutare, nel caso concreto, se la pena sostitutiva possa perseguire le finalità rieducative e di prevenzione. In altre parole, si introduce una «presunzione legale di inidoneità» delle pene sostitutive nei confronti di chi ha commesso determinati reati, a prescindere dal percorso individuale, dalla gravità concreta della condotta o da elementi di ravvedimento.
Una rigidità che, secondo l’ordinanza, contrasta con almeno tre principi costituzionali. In primo luogo con l’articolo 76, perché la norma eccederebbe i limiti della delega data al governo dalla legge n. 134 del 2021, che non prevedeva l’introduzione di simili automatismi. Ma anche con l’articolo 3 della Costituzione, per violazione del principio di uguaglianza: situazioni potenzialmente molto diverse, secondo i giudici, vengono trattate in modo identico, senza possibilità di distinzione sulla base di parametri individuali. E, soprattutto, con l’articolo 27, comma 3, della Costituzione: il giudice viene infatti privato della possibilità di individuare la sanzione più adeguata alla persona del condannato e alle esigenze di prevenzione del caso specifico. «Principio, questo, di speciale rilievo - si legge - in un contesto caratterizzato dalla situazione di significativo sovraffollamento in cui versano le carceri italiane».
Nel caso concreto, l’imputato – incensurato e giovane, coinvolto in un grave episodio per il quale è stato condannato in rito abbreviato – aveva chiesto la sostituzione della pena detentiva residua con una delle nuove pene introdotte dalla riforma. Tuttavia, la condanna per uno dei reati elencati nel famigerato articolo 4- bis glielo ha precluso. La Corte ha ritenuto di non poter applicare la pena sostitutiva, ritenuta però «idonea alla rieducazione», proprio a causa del vincolo normativo, e ha quindi sollevato la questione di legittimità.
La norma censurata, scrive, si fonda su una «presunzione assoluta di inidoneità della pena sostitutiva, basata unicamente sul titolo di reato e sullo status soggettivo del condannato», con la conseguenza che «si vulnera il principio costituzionale per cui la pena deve tendere alla rieducazione del soggetto».
L’irragionevolezza della norma emerge anche in rapporto alla finalità dichiarata della riforma Cartabia: «Rivitalizzare l’istituto della sostituzione della pena detentiva», per favorire «la deflazione penitenziaria e processuale» e per offrire «risposte sanzionatorie alternative» alle pene brevi, considerate spesso «desocializzanti». In quest’ottica, l’esclusione dei condannati per reati ostativi si presenta come un corpo estraneo, che reintroduce un automatismo penalizzante in un sistema che vorrebbe essere ispirato alla flessibilità e alla personalizzazione del trattamento penale.
L’udienza davanti alla Corte costituzionale è fissata per il 25 giugno. A essere in discussione non è solo una norma tecnica, ma il senso stesso della riforma: se davvero vuole costruire un sistema penale più flessibile e orientato al recupero del condannato, può tollerare automatismi che tagliano fuori in partenza intere categorie di imputati?