Seduto nell’auletta dei gruppi parlamentari della Camera per seguire la conferenza stampa di fine anno del presidente del Consiglio, più sentivo Paolo Gentiloni, più guardavo le pareti, più sollevavo gli occhi verso il soffitto, meno riuscivo a sottrarmi al ricordo del povero Aldo Moro. Mi chiederete, a distanza di più di 38 anni dalla sua tragica morte che cosa c’entri Moro con Gentiloni e col suo incontro con i giornalisti, fresco di nomina a presidente del Consiglio. C’entrava e c’entra, forse all’insaputa dello stesso Gentiloni, che all’epoca della vicenda che sto per raccontarvi aveva meno di 24 anni e non immaginava di certo il tipo di carriera politica che lo aspettava, impegnato com’era allora a contestare da extraparlamentare sia la maggioranza sia l’opposizione.
Seduto nell’auletta dei gruppi parlamentari della Camera per seguire la conferenza stampa di fine anno del presidente del Consiglio, più sentivo Paolo Gentiloni, più guardavo le pareti, più sollevavo gli occhi verso il soffitto, meno riuscivo a sottrarmi al ricordo del povero Aldo Moro. Mi chiederete, a distanza di più di 38 anni dalla sua tragica morte che cosa c’entri Moro con Gentiloni e col suo incontro con i giornalisti, fresco di nomina a presidente del Consiglio. C’entrava e c’entra, forse all’insaputa dello stesso Gentiloni, che all’epoca della vicenda che sto per raccontarvi aveva meno di 24 anni e non immaginava di certo il tipo di carriera politica che lo aspettava, impegnato com’era allora a contestare da extraparlamentare sia la maggioranza sia l’opposizione.
Fu proprio in quell’auletta dove il presidente del Consiglio ha avuto il battesimo del “fuoco” con le domande dei giornalisti smaniosi di spiazzarlo, e di misurarne maliziosamente le distanze dal predecessore e grande assente, Matteo Renzi; fu proprio in quell’auletta, dicevo, che il 28 febbraio del 1978 Moro pronunciò il suo ultimo discorso. Egli aveva compiuto da pochi mesi 61 anni, guidato 6 governi, la Dc per 4 anni, e collezionato tre Ministeri di prestigio come gli Esteri, la Pubblica Istruzione e la Giustizia, destinato infine, secondo tutte, ma proprio tutte le previsioni, a diventare alla fine di quell’anno presidente della Repubblica, alla scadenza ordinaria del mandato di Giovanni Leone. Eppure Moro quel giorno era inconsapevolmente arrivato al capolinea politico. Dopo soli 16 giorni sarebbe stato rapito. Nessuno più, dopo quel discorso, avrebbe più sentito dal vivo la sua voce, eccetto quegli sciagurati brigatisi che si arrogarono addirittura il diritto di processarlo nel loro covo. E infine di condannarlo a morte.
L’auletta dei gruppi parlamentari della Camera non aveva allora le luci e i decori di oggi. Era dignitosa ma austera, direi sobria se questo aggettivo non fosse stato rovinato qualche anno fa con l’abuso che se ne fece per commentare abbigliamento, portamento e quant’altro di Mario Monti, per quanto avvolto in due mandati non da poco: presidente del Consiglio e senatore a vita, entrambi conferitigli a pochi giorni o addirittura ore di distanza dall’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano.
Moro la sera di quel 28 febbraio non stava bene. Oreste Leonardi, il giovanile e fedele maresciallo dei Carabinieri che ne comandava la scorta, e lo seguiva ovunque portandosi appresso una borsa in cui custodiva anche le punture che all’occorrenza sapeva fargli se ne avesse avuto bisogno per il cosiddetto “mal bronzino” che l’affliggeva, mi disse che quella volta “il presidente” aveva qualche linea di febbre, non essendo riuscito a smaltire una fastidiosa influenza. A quell’appuntamento con i parlamentari democristiani tuttavia egli non aveva voluto mancare perché solo lui – gli avevano detto il segretario della Dc Benigno Zaccagnini e il presidente del Consiglio Giulio Andreotti - avrebbe saputo rimuovere gli ultimi ostacoli alla chiusura della lunga crisi apertasi alla fine del 1977 per la richiesta dei comunisti di apparire ancora più chiaramente, e non solo di essere decisivi nella partecipazione alla maggioranza di governo.
Il Pci di Enrico Berlinguer aveva sino ad allora sostenuto dall’esterno con l’astensione, o “non sfiducia”, il governo monocolore democristiano di Andreotti formatosi dopo le elezioni politiche anticipate del 1976, provocate dall’allora segretario socialista Francesco De Martino con l’annuncio che il Psi non sarebbe più tornato a collaborare con la Dc senza l’appoggio dei comunisti. A Palazzo Chigi c’era in quel momento proprio Moro, a capo di un governo “bicolore” Dc- Pri, con Ugo La Malfa vice presidente del Consiglio.
Quell’annuncio era costato carissimo ai socialisti, usciti dalle urne con il minimo storico. Incapaci numericamente di fare a meno gli uni degli altri per governare un Paese alle prese con una drammatica crisi economica e finanziaria e con il terrorismo, democristiani e comunisti avevano concordato una tregua assumendo la linea della cosiddetta solidarietà nazionale, variante del “compromesso storico” teorizzato ancor prima da Berlinguer per scongiurare che l’Italia facesse la fine del Cile col generale Pinochet.
Dopo più di un anno di astensione, con i sindacati in agitazione per la politica dei sacrifici praticata da un governo cui però non partecipavano, i comunisti avevano posto il problema di un chiarimento programmatico e di quadro politico. Scartata l’ipotesi, che pure non sarebbe dispiaciuta ad Andreotti, e forse neppure a Zaccagnini, dell’ingresso nel governo di due indipendenti di sinistra eletti nelle liste del Pci, Moro condusse personalmente con Berlinguer una trattativa sul programma che consentisse ai comunisti di votare la fiducia.
Neppure questa prudenza tuttavia era riuscita a placare le insofferenze e le paure nella Dc, sia a destra sia a sinistra: a destra con le resistenze di uomini come Mariotto Segni e Oscar Luigi Scalfaro, pur destinato dopo 12 anni ad essere eletto al Quirinale anche dai comunisti; a sinistra con Carlo Donat- Cattin. Costoro avrebbero preferito un altro turno di elezioni anticipate.
Moro pazientemente spiegò quella sera agli uni e agli altri, nell’auletta – ripeto - dei gruppi parlamentari della Camera, che le elezioni sarebbero state di nobile ma inutile “testimonianza”. Ne sarebbero usciti rafforzati entrambi i partiti maggiori, ma a spese dei minori, di cui invece essi avrebbero avuto bisogno per fare una maggioranza di governo che li rendesse anche in Parlamento alternativi com’erano in campagna elettorale.
Il passaggio più decisivo di quel discorso, per convincere i refrattari alla nuova e più stringente intesa col Pci, fu paradossalmente un inciso riguardante il Psi, passato dopo le elezioni del 1976 dalle mani del vecchio De Martino a quelle del giovane Bettino Craxi. Che aveva avviato, rispetto al predecessore, un’inversione di rotta all’insegna dell’autonomia, di cui però occorreva sapientemente attendere i tempi non rapidi.
Era chiaro che Moro, peraltro convinto, come ho già accennato, di poter arrivare alla fine dell’anno in quel crocevia che era ed è tuttora il Quirinale, aspettasse il ritorno dei socialisti al centrosinistra da lui stesso realizzato in forma organica per la prima volta, con un governo a partecipazione diretta, nel lontano 1963. Ma questo il presidente della Dc non poteva auspicarlo e teorizzarlo con troppa evidenza, con qualcosa di più di un inciso allusivo, perché sapeva che avrebbe in tal caso ferito l’orgoglio del Pci. Di cui lui invece aveva profondo rispetto, tanto che una volta, facendo uno strappo al suo garbo usuale, mandò quasi a quel paese, alla mia presenza, un amico che parlava della necessità di “stanare” i comunisti sul versante ormai non più internazionale, essendosi Berlinguer spinto a dichiararsi garantito pure lui sotto “l’ombrello della Nato”, ma sindacale.
Moro lasciò quella sera, quasi notte, l’auletta dei gruppi parlamentari della Camera sfinito, ma soddisfatto di avere compiuto la sua missione di persuasione. In quella mano che mi tese, uscendo scortato dal solito Leonardi per raggiungere l’auto e tornarsene a casa, sentii più abbandono che forza. Un abbandono che ancora mi angoscia quando lo ricordo. Quella d’altronde fu anche per me l’ultima volta che lo vidi.
Mi sono sempre chiesto, e torno ancora a chiedermi oggi, perché non sia stata dedicata alla memoria di Moro quell’auletta, anziché la sala al piano nobile del Palazzo di Montecitorio che porta il suo nome ma dove temo c’egli non avesse mai messo piede. Non vi dico la delusione che provai quando, finito lo sfarzoso restauro di quell’auletta ed espressa la mia delusione per l’occasione mancata di dedicargliela, mi accorsi che l’alto funzionario della Camera con cui parlavo non sapesse neppure che lì Moro aveva pronunciato il suo ultimo discorso.