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Un tweet come tanti da molti mesi a questa parte, lo ha postato il 10 giugno l’account ufficiale dell’organizzazione non governativa Sea Watch che opera nel mar mediterraneo salvando migranti: “trovato Chok dal Sud Sudan appena uscito dalle prigioni in Libia. Siamo contenti di averlo trovato su una barca di legno con altre 44 persone questa mattina”. In poche righe l’essenza e le informazioni su quello che ancora continua a succedere anche se sembrava essersi abbassato il polverone delle settimane passate. Innanzitutto i naufragi e i salvataggi continuano, le persone muoiono e le Ong proseguono nella loro opera di ricerca e soccorso in mare. Qualcosa invece sta cambiando con l’ingresso ufficiale di un nuovo protagonista sullo scacchiere: la marina libica. Riforniti di mezzi dall’Italia, foraggiati economicamente e a livello di addestramento i guardiacoste di Tripoli stanno effettivamente prendendo il controllo delle operazioni. Succede però che lo fanno a modo loro e senza troppi complimenti. Il 9 giugno nel Canale di Sicilia si è sfiorato, come settimane fa, lo scontro con alcune imbarcazioni umanitarie. In acque di search and rescue dove incrociano sia Ong che marina libica si è svolto un episodio che potrebbe divenire sempre più frequente. A quanto sembra, le imbarcazioni delle organizzazioni non governative attendevano l’arrivo di alcuni barconi per trarre in salvo i migranti, la marina libica ha intimato loro di allontanarsi e ritirarsi dalle “acque libiche” (pare si trattasse di acque solo prossime alla competenza territoriale libica). In più hanno accusato le Ong di essere in contatto con persone a bordo dei gommoni, risultato: 570 migranti riportati indietro. E’ facile immaginare la loro sorte, rinchiusi di nuovo nei centri di detenzione, in un paese ormai sempre più vicino all’esplosione definitiva di una guerra civile. Sulle condizioni inumane alle quali sono sottoposti i migranti si è già parlato abbondantemente, le testimonianze ormai non mancano (compresa la probabile inchiesta della Corte penale internazionale), a non tenerne conto sembra essere solo l’Italia e la Ue che con Tripoli si sono accordati proprio per non far arrivare i migranti. L’episodio è bastato per riportare indietro, al punto di partenza, la polemica e le accuse. Secondo il portavoce della Marina libica, l’ammiraglio Ayob Amr Ghasem: «chiamate wireless sono state rilevate, una mezz'ora prima dell'individuazione dei barconi, tra organizzazioni internazionali non governative che sostenevano di voler salvare i migranti illegali in prossimità delle acque territoriali libiche. Sembrava che queste Ong aspettassero i barconi per abbordarli. Le Guardie costiere - ha aggiunto Ghasem - hanno preso contatto con queste Ong e hanno domandato loro di lasciare le acque territoriali libiche». Punto a capo insomma, sembra che qualcuno non abbia informato i libici che il tenore di queste accuse non è più sostenuto neanche da Frontex, tra le altre cose quasi scomparsa da parecchio tempo dalle zone di search and rescue. Qualcosa però non torna, perché Ghasem ha continuato, e se possibile ha aumentato il fuoco delle dichiarazioni senza però fornire dettagli e elementi circostanziati? «Il comportamento di queste Ong – ha infatti detto il portavoce della Marina libica - accresce il numero di barconi di migranti illegali e l'audacia dei trafficanti di esseri umani» ed inoltre «i trafficanti sanno bene che la via verso l'Europa è agevole grazie a queste Ong e alla loro presenza illegittima e sospetta in attesa di poveri esseri umani». Eppure proprio due giorni fa è stato presentato ufficialmente a Roma presso la sala della stampa estera, un rapporto redatto dalla Goldsmiths university di Londra che dati alla mano fa giustizia di tutti i rilievi di Frontex, mettendo in luce come le Ong non rappresentino un pull factor. Anzi lo studio rileva come è grazie alle organizzazioni umanitarie che l’Europa si è potuta sostanzialmente ritrarre dalle operazioni di soccorso. Il progressivo aumento degli arrivi nel 2016 non è stato provocato dalla presenza delle Ong, lo dimostra il fatto che attualmente i numeri sono in linea con le previsioni dell’anno precedente quando le Ong operavano in misura notevolmente minore. I fattori che causano le partenze sono diversi e da ricercare in altri motivi. Uno degli autori dello studio, Lorenzo Pezzani, afferma che «l’evidenza non supporta l’idea che i soccorsi delle Ong aumentino il numero dei viaggi. Gli argomenti contro le Ong ignorano deliberatamente l’acuirsi della crisi economica e politica in molte regioni dell’Africa che è alla base dell’aumento dei viaggi nel 2016. Le violenze contro i migranti in Libia sono così pesanti che i migranti tentano la fuga in mare con o senza la presenza di navi umanitarie pronte a salvarli». Inoltre viene smentita l’asserzione che le Ong operando vicino le coste libiche causino i viaggi e le morti in mare. Per gli autori del rapporto infatti questo dipende dalle modalità di viaggio enormemente peggiorate con lo scoppio del conflitto in Libia, a ciò c’è da aggiungere che la distruzione di natanti dei trafficanti, non solo non li ha fatti desistere dal terminare il lucroso commercio, bensì li ha obbligati a utilizzare piccoli gommoni fatiscenti con un aumento enorme dei rischi per i passeggeri. Ed ecco poi che gli autori hanno individuato nelle modalità violente della Guardia costiera libica, un grande fattore di rischio per i migranti. A questo proposito le cronache sono ormai piene di episodi, documentati anche in video, di ribaltamento dei barconi a seguito dell’intervento della marina libica. «La nostra analisi – ha affermato il ricercatore Charles Heller - dimostra che il tasso di mortalità dei migranti è costantemente diminuito nei periodi in cui operano le navi delle Ong ed è invece aumentato in loro assenza». «Se questa campagna di discredito contro le Ong riuscisse a diminuire o a bloccare le loro attività – ha proseguito Heller -, ci sarebbe un rischio reale che moltissimi migranti che attraversano il Mediterraneo possano perdere la vita, esattamente come accadde nel 2014 alla fine dell’operazione Mare nostrum».