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Martelli e Falcone
«Non c’è ombra di dubbio su quali fossero le convinzioni di Giovanni Falcone. Basta leggere opportunamente la raccolta dei suoi scritti che pubblicai quando diedi vita alla Fondazione Falcone: considerava la separazione delle carriere conseguenza logica del nuovo processo penale di carattere accusatorio». Così ieri l’ex ministro della Giustizia Claudio Martelli in audizione davanti alla commissione Affari costituzionali del Senato ha respinto la tesi delle toghe secondo cui Falcone non va assolutamente annoverato tra i fautori della riforma.
L’ex dirigente del Psi, chiamato da Fratelli d’Italia a intervenire appunto sulla modifica costituzionale dell’ordinamento giudiziario, quando era responsabile di via Arenula aveva chiamato proprio il magistrato poi ucciso a Capaci a guidare gli Affari penali del ministero: «Falcone non riteneva scandaloso collaborare con me, altrimenti non avrebbe mai accettato di cooperare con il guardasigilli. Del resto al ministero più di cento magistrati ricoprono il ruolo di dirigenti e non è questa già una forma di collaborazione tra potere giudiziario e potere esecutivo?».
Per interpretare al meglio questa ultima considerazione di Martelli bisogna ripercorrere dall’inizio il ragionamento che ha fatto ieri dinanzi ai senatori. «Mi consenta di cominciare con un aneddoto che credo istruttivo anche del mio punto di vista», ha esordito rivolgendosi al presidente della commissione e relatore del provvedimento, Alberto Balboni. «Ero ministro da un paio di settimane, quando mi toccò rispondere all’invito dell’Assemblea degli avvocati parigini per illustrare il nuovo codice di procedura penale, il codice Vassalli.
Lo illustrai, riscossi attenzione – ha raccontato Martelli – e poi prese la parola il presidente degli avvocati francesi, il quale con molta cortesia si disse ammirato di questa iniziativa coraggiosa con cui il Parlamento italiano aveva cambiato il vecchio rito inquisitorio, però obiettò: «"Le confesso che ci sono perplessità tra di noi perché fintanto che i nostri studi di avvocati non saranno in condizione di sviluppare le controindagini, e quindi essere effettivamente alla pari con l’accusa, preferiamo allora in questa fase tenerci il nostro giudice istruttore, in quanto almeno c’è qualcuno all’interno della giurisdizione in condizione di frenare l’esuberanza dei nostri pubblici ministeri”».
E qui l’ex guardasigilli ha confessato: «Per me fu una specie di rivelazione: chi aveva immaginato che la riforma Vassalli potesse superare una situazione di totale disparità tra i poteri dell’accusa e della difesa poi si trovò di fronte a un’obiezione conservatrice ma molto seria». Martelli ha appunto ricordato che «la Costituzione prevederebbe anche la possibilità di reclutare i giudici, almeno di Cassazione, al di fuori dell’ordine giudiziario. Provai a dare concretezza a questa previsione costituzionale ma le obiezioni furono infinite, come spesso accade quando si cerca di toccare il sistema della magistratura». Dunque, «condivido la riforma, ma non credo che essa servirà a garantire la responsabilità del pubblico ministero» perché esiste il rischio che «questa separazione delle carriere configuri una totale anomìa del pm», ossia un rappresentante dell’accusa estraneo al resto dell’ingranaggio democratico.
L’ex ministro, pur non ipotizzando la possibilità che la magistratura requirente finisca sotto il controllo dell’Esecutivo, ha però ammesso che questo, laddove avviene, non costituisce un modello negativo: «Non si tratta di imbrigliare il pm, di sottoporlo al controllo dell’Esecutivo, anche se questo esiste nelle Repubbliche democratiche non in modo totale assoluto come era nei regimi assolutistici; ma una parziale influenza del governo attraverso il ministro della Giustizia sull’esercizio dell’azione penale esiste in molti Paesi europei che sono certamente democratici, dotati di Costituzioni democratiche, e tutto ciò non fa scandalo».
La sua idea di fondo è che «una qualche forma di leale cooperazione tra potere esecutivo e potere giudiziario può esistere, altrimenti si va incontro a scontri ripetuti, a paralisi, a contestazioni infinite. Dunque sì alla riforma, attenzione alle conseguenze perché rimane il problema di come si muove il pm nella più totale e assoluta autonomia e indipendenza». Infatti secondo Martelli «con la riforma non si risolve il problema della responsabilità del pm, né la sua duplice natura di parte del processo e, però, guida della polizia giudiziaria, che è funzione dello Stato ed è di parte».
La leale cooperazione per Martelli «non è come un caciocavallo appeso di quelli di cui parlava Benedetto Croce, non è un’idea astratta, è sostanziale e dunque richiede una disponibilità da parte anche del pm a considerare i risvolti e le conseguenze altresì sociali della sua azione penale. Il diritto non può vivere in una specie di separazione: ricordo, ero giovane, la lunga polemica delle forze di sinistra contro i corpi separati dello Stato, e ci si riferiva a magistratura ed esercito. Attenzione a questa separatezza, perché è un po’ in conflitto con la democrazia, o può creare conflitti con un sistema democratico» Con quelle di ieri termina il ciclo di audizioni sulla separazione delle carriere: è attesa per oggi la decisione da parte dell’Ufficio di presidenza sui termini per presentare gli emendamenti.