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«Mai più», recita la targa inaugurata ieri presso la Corte di Appello di Roma in ricordo dei magistrati, degli avvocati e del personale giudiziario dispensati dalla professione e dal servizio durante il fascismo, perché ebrei.
«La ferocia delle leggi razziali del 1938- 39 colpì, la giustizia degli uomini oggi ripara», si legge sulla superficie in vetro mentre la presidente del Senato, Elisabetta Alberti Casellati, rimuove il telo di copertura insieme al Presidente della Corte di appello di Roma, Giuseppe Meliadò, e ai rappresentanti della comunità ebraica. Un gesto simbolico di riabilitazione, di condanna, e di «memoria collettiva» che però non è «retorica commemorazione», sottolinea Casellati: ma «l’esercizio di quella che è stata definita una “memoria attiva”, secondo i principi di verità e responsabilità».
«Su questa memoria - ribadisce la presidente del Senato - sono state poste le basi della nostra Costituzione repubblicana. Sono stata colpita - spiega - delle storie delle donne e degli uomini di legge perseguitati dal regime fascista, dalla loro forza, dal loro attaccamento alla libertà, dalla loro eroica testimonianza. C’è poi una data che si impone alla nostra memoria, il 17 novembre 1938, il giorno in cui l’Italia, dopo la pubblicazione del manifesto della razza, si avviò ad essere uno Stato razziale e razzista. Al contempo fu ulteriormente rafforzato il disegno, prefigurato negli anni precedenti, di depotenziare l’autonomia della magistratura e la libertà della professione forense».
«In questo contesto - prosegue Casellati - il regime, all’indomani dall’approvazione delle leggi razziste, procedette rapidamente all’epurazione dei magistrati ebrei: alcuni dispensati dal servizio, altri collocati forzatamente a riposo, molti esclusi dal concorso in magistratura. Numerosi furono quelli che pagarono con la vita la loro opposizione al regime».
Si tratta di quel graduale, ma inesorabile, processo di discriminazione avviato dalla propaganda fascista che culminò per gli avvocati ebrei nell’impossibilità di svolgere l’attività forense con la legge n. 1054 del 1939. La norma sanciva la fine del libero esercizio della professione e costituiva tre distinti Albi. Per primo, quello degli avvocati e procuratori di razza ariana, liberi di svolgere la propria attività. Per gli avvocati di razza ebraica, invece, la legge prescriveva l’iscrizione in “elenchi aggiunti”, qualora avessero «ottenuto la discriminazione»: cioè la possibilità di esercitare con alcune limitazioni. In ultimo, gli avvocati ebrei «non discriminati» che rientravano negli “elenchi speciali” e potevano esercitare esclusivamente in favore di cittadini ebrei.
Dei tanti professionisti che furono perseguitati, la presidente del Senato ricorda, in particolare, Amalia Fleischer: primo avvocato donna del Sud Tirolo, deportata ad Auschwitz nel 1944 dopo il raggiungimento, tanto osteggiato, dell’iscrizione all’Albo dell’Ordine degli avvocati di Bolzano. «Questa targa non cancellerà quanto allora avvenuto, quanto ancora oggi emerge con nostalgiche affermazioni», sottolinea nel corso della celebrazione la Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (Ucei), Noemi Di Segni. «Ma certamente - aggiunge - ne esprimono il chiaro disconoscimento e rigetto. Siamo qui con l’eco della sofferta ingiustizia subita dai nostri genitori, nonni e bisnonni, eco che arriverà ai nostri figli, nipoti e pronipoti».
Dell’importanza di ricordare e condannare parla anche il presidente dell’Ordine degli Avvocati di Roma, Antonino Galletti, nel suo intervento. Proprio in funzione di questo impegno «a lottare contro ogni forma di discrimazione», l’Ordine capitolino ha assunto nel pomeriggio di ieri un provvedimento con il quale vengono annullati, ex tunc, tutti gli atti discriminatori nei confronti dei colleghi del foro romano espulsi dalla professione durante quegli anni. «L'atto di riabilitare, seppure con un atto simbolico, gli avvocati radiati dall'albo a seguito delle leggi razziali del 1938, assume oggi un significato particolare», spiega la presidente facente funzioni del Consiglio Nazionale Forense, Maria Masi, intervenendo all’adunanza consiliare. «Soprattutto - aggiunge - in questo momento storico, unico nella sua tragicità, in cui il rischio di percepire come vulnerabili garanzie ineludibili e diritti fondamentali è ancora più alto».
«Le leggi razziali colpirono per primi proprio i professionisti e principalmente gli avvocati – prosegue – ma va sottolineato, ed è una nota dolente, che in questo furono coinvolti gli ordini professionali e parte della magistratura e dell’avvocatura che intesero condividere quelle scelte nonostante il giuramento professionale a difesa dei diritti fondamentali. Quindi anche se solo formale – conclude - non è trascurabile, nell’atto di cancellare quei decreti, l'importanza, principalmente per due ragioni: perché restituisce, anche se solo simbolicamente, giustizia ai colleghi e perché restituisce dignità all'avvocatura, anche a quella che è stata complice di questa barbarie, affinché chi oggi esercita la nostra professione coltivi la memoria e non dimentichi mai il ruolo e la funzione a cui è chiamato».