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L’Italia sta completamente esternalizzando la gestione dei flussi migratori, o meglio, sta appaltando ad alcuni paesi africani la chiusura delle frontiere. Si parla di Ciad, Niger e naturalmente la Libia. La ricetta è facile, si impedisce alle persone che migrano di raggiungere il nostro paese in primis, e poi l’Europa. La direzione è quella opposta all’istituzione di canali umanitari, legali e protetti, che potrebbero rappresentare una delle poche soluzione di gestione di un fenomeno che non cesserà per molti anni. Finchè permarranno le condizioni di instabilità politica, di guerre e povertà, le persone proseguiranno a cercare fortuna altrove. La Libia Questa storia inizia il 3 febbraio scorso quando Italia e Libia stipulano un accordo che viene presentato come un punto di svolta nella gestione del fenomeno migratorio verso l’Europa. Le firme sono quelle del presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e di Fayez Al Serraj che presiede il governo di Tripoli. Una scelta che appare in qualche modo monca visto che la Libia è divisa in due entità territoriali, quella governata da Tripoli appunto e l’altra controllata da Tobruk dove domina il generale Haftar. Il memorandum Nonostante l’evidente instabilità del paese nordafricano, quest’ultimo viene designato come partner affidabile e dall’accordo scaturisce un memorandum tutto improntato, almeno secondo i proclami ufficiali, al contrasto del traffico di esseri umani. Tra i punti principali dell’intesa l’Italia si è impegnata a consegnare al governo libico 10 motovedette sequestrate a Gheddafi. Al momento ne sono giunte a destinazione 4, le altre sembra arriveranno nei prossimi mesi. Inoltre si è proceduto ad addestrare personale militare (90 ufficiali) per il controllo delle acque libiche. Ufficialmente si parla di lotta agli scafisti ma nella realtà, come si capirà in seguito, si tratta di riportare indietro i migranti partiti sui barconi. Un paese nel caos Il presupposto fondamentale dunque è stato quello di considerare la Libia come paese affidabile. Un calcolo e comunque un’analisi sbagliata. Innanzitutto Tripoli non sembra al momento in grado di controllare la sua porzione di territorio, intere zone vivono praticamente solo di commercio di contrabbando, dalla benzina alle armi, alla droga e quindi anche uomini. I migranti sono considerati dunque alla stregua di qualsiasi altra merce. Il traffico di esseri umani, in una situazione così caotica, ha un impatto notevole sull’economia locale. Si è calcolato circa 300 milioni di euro. La Guardia Costiera libica Parte integrante del fiorente commercio, compreso quello di esseri umani, è anche la Guardia Costiera libica. Sono ormai diverse le testimonianze e le inchieste giornalistiche che hanno messo in luce il suo coinvolgimento in affari illegali. Il capo della Guardia Costiera di Zawiya, Abdurahman Milad, è ritenuto una figura importante nel business sulla pelle migranti. Il lavoro di Nancy Porsia per Trt World ha scoperchiato la pentola delle accuse contro Milad, quest’ultimo avrebbe legami evidenti con le milizie di Tripoli che organizzano i viaggi attraverso il Sahara prima di giungere in Libia. I centri di detenzione, l’Italia sapeva Una situazione che l’Italia conosce bene ma che sembra essere stata ignorata al momento della firma dell’accordo. Così come il governo italiano è sicuramente a conoscenza delle denunce, che si ripetono sempre più spesso circa le condizioni che i migranti si trovano a vivere nei centri di detenzione libici spesso controllati da milizie criminali che sfuggono ad ogni giurisdizione statuale. Lo strapotere delle milizie E’stata l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni a fornire qualche dato. In Libia sono detenute almeno 20000 persone, in gran numero sono le donne e i bambini. Una volta arrivati nel paese nordafricano i migranti sono preda dei trafficanti locali che hanno ormai organizzato un vero mercato degli schiavi. Le bande come i famigerati Asma Boys, li scambiano tra loro. Le donne subiscono spesso violenze sessuali, altri lavorano gratis per i loro stessi aguzzini per potersi garantire la partenza sui barconi di fortuna che poi naufragano nel Mediterraneo. L’inchiesta della Corte Penale Internazionale La situazione è tale che l’ 8 maggio si esprimeva così il procuratore capo della Corte Penale Internazionale (ICC) Fatou Bensouda «Secondo fonti credibili, gli stupri, gli omicidii e gli atti di tortura sarebbero all’ordine del giorno e sono rimasta scioccata da queste informazioni che assicurano che la Libia è diventato un mercato per la tratta di esseri umani». L’incontro del 15 maggio Eppure appena pochi giorni fa, precisamente il 15 maggio, il ministro dell'Interno, Marco Minniti, si è recato a Tripoli per incontrare Serraj. Le cronache dell’incontro insistono molto sul fatto che il premier libico abbia insistito sul concetto che «Italia e Libia sono saldamente dalla stessa parte nella lotta contro il traffico di migranti». Minniti ha incassato la promessa di un rafforzamento dell’impegno libico nel pattugliamento delle coste e il proseguimento del programma di collaborazione bilaterale. L’unica concessione ad una diversa visione è stata la promessa italiana per un miglioramento di centri di accoglienza in Libia attraverso l'operato dell'Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) e dell'Alto commissariato dell'Onu per i rifugiati (Unhcr). Cambio di strategia e attacco alle Ong Che questa data abbia costituito un’accelerazione dell’operatività libica pare evidente. Soltanto che le cose non stanno andando per il verso giusto. L’episodio del 10 maggio scorso è esemplificativo di ciò che sta cambiando. Una nave dell’organizzazione umanitaria Sea Watch aveva risposto ad una segnalazione del centro di comando della Guardia Costiera italiana riguardo un barcone carico di almeno 300 migranti, ma molto più vicini al numero di 500, in difficolta in acque internazionali. Quando si stavano mettendo in campo le misure di salvataggio, una motovedetta libica ha attraversato la traiettoria della nave di soccorso a forte velocità mettendo a rischio la vita dei soccorritori e dei migranti. Quasi uno speronamento che ha costretto la Ong a fermarsi, i libici hanno così fermato i migranti e li ha riportati indietro. La scena è stata documentata da un operatore video presente ed ha ormai fatto il giro del mondo. Violazioni e scomodi testimoni Amnesty International, in un comunicato del 23 maggio, è tornata sull’episodio per sottolineare questo cambio di procedure. La ricerca e il soccorso dei migranti in difficoltà era coordinato dalla Guardia Costiera Italiana, dalla Marina e di volta in volta dalla missione militare europea a guida italiana Sophia e dall’agenzia Frontex. Partecipavano navi commerciali e molto efficacemente proprio le Ong. Quest’ultime sono ora oggetto di attenzioni “particolari” dei militari libici. Forse che le navi umanitarie non debbano essere scomode testimoni della messa in pratica di una nuova strategia? La denuncia di Amnesty International Sempre Amnesty ha parlato di "forti timori che l'Italia stia tentando di venire meno all'obbligo di proteggere le persone in fuga dalle massicce e sistematiche violazioni dei diritti umani in Libia, facilitando l'intercettamento di migranti e rifugiati, da parte delle autorità libiche, nel Mediterraneo centrale". Violazioni che avvengono anche in mare come testimoniano i fatti della tragica vicenda del 23 maggio. La nave su cui opera Medici senza Frontiere, l’Aquarius, era impegnata in un’operazione di soccorso quando la guardia costiera libica si è avvicinata a dei barconi in difficoltà, ha minacciato le persone a bordo e ha sparato dei colpi in aria, scatenando il panico. Oltre 60 persone sono finite in acqua. Anche in questo caso non mancano le immagini girate addirittura da una troupe del Tg3 che si trovava a bordo. Il lavoro sporco Tutti questi episodi paiono il risultato della pressione esercitata dall’Italia sul fragile governo di Serraj. A ciò bisogna anche aggiungere che il memorandum è stato sospeso fino al momento del pronunciamento di un tribunale libico circa la sua validità. La direzione intrapresa è quella di fermare sul nascere le partenze dei migranti. La presenza costante delle motovedette di Tripoli consentirebbe all'Italia e all'Unione europea di aggirare l'obbligo internazionale di soccorrere e fornire protezione.