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«Le espulsioni collettive di stranieri sono vietate» ed è per questo che lo Stato dovrà risarcire con 15mila euro a testa e l’accoglimento della richiesta d’asilo un gruppo di migranti riportati con la forza in Libia dalla Marina militare italiana. È una sentenza pesante quella pronunciata dal Tribunale civile di Roma, che accogliendo un ricorso dell’Asgi e di Amnesty international ha assestato un nuovo colpo alle politiche migratorie dell’Italia.
Sancendo, soprattutto, il comportamento «antigiuridico» del nostro Paese, che conscio delle violazioni dei diritti umani in Libia ed Eritrea ha comunque mettendo in atto un illegittimo respingimento di massa. Il fatto risale a giugno 2009, quando 89 persone sono partite fuggite dall’Eritrea sono salpate dalle coste della Libia con l’obiettivo di raggiungere l’Italia per chiedere il riconoscimento della protezione internazionale.
Raggiunti dopo tre giorni dalla Nave Orione, della Marina italiana, dopo esser stati perquisiti e identificati, ai migranti è stato garantito l’ingresso in Italia, dove avrebbero potuto richiedere la protezione internazionale. Un bluff, visto che la Marina ha invece riconsegnato i migranti ai libici, ignorando i rischi corsi dai migranti. E lì, infatti, sono stati detenuti per mesi, in condizioni inumane e degradanti. Il tutto in nome di una trattato di “Amicizia, partenariato e collaborazione” siglato nel 2008 con la Libia.
L’Italia, scrive il giudice, ha però violato «un principio fondamentale che non ammette riserve» : quello di non respingimento, che vieta agli Stati aderenti alla Convenzione di Ginevra di rispedire un rifugiato in luoghi dove la sua vita o la sua libertà vengono minacciate. Un principio strettamente legato, oltre che al divieto di tortura, anche al diritto d’asilo. L’Italia, dunque, non solo aveva l’obbligo di informarsi sui pericoli che i migranti avrebbero corso in Libia, ma i vari rapporti diffusi al momento del respingimento, afferma il giudice Monica Velletti, ben testimoniavano le «sistematiche violazioni dei diritti dell’uomo» e in particolare «torture, arresti arbitrari, condizioni detentive disumane, lavori forzati e gravi restrizioni alla libertà di movimento, di espressione e di culto» in Libia e Eritrea.
E l’accordo allora in vigore tra Italia e Libia «non poteva esonerare l’Italia dal rispettare gli obblighi assunti per la ratifica di strumenti internazionali», di rango superiore, anche perché quell’accordo non disciplinava in alcun modo operazioni di respingimento. Insomma, la condotta dell’autorità italiana è stata «antigiuridica» e oltre al danno patrimoniale, lo Stato dovrà ora anche individuare «gli strumenti più idonei» ad accogliere la domanda di accesso al territorio italiano per poter richiedere la protezione internazionale.
«La sentenza - ha commentato al Dubbio Gianfranco Schiavone, vicepresidente dell’Asgi - è innovativa perché stabilisce che la violazione deve trovare un suo rimedio anche consentendo a quelle persone, anche dopo molto tempo, di accedere al territorio italiano per fare quello che è stato loro impedito, imponendo il rilascio di un visto d’ingresso per motivi umanitari. Altrimenti il diritto d’asilo, costituzionalmente garantito, sarebbe vanificato».