Sulla riforma della giustizia appare già evidente da qualche tempo che lo sguardo di tutti gli attori scena sia già rivolto, in prospettiva, all'appuntamento referendario. Ma proprio in vista di questo appuntamento così importante su un testo che è attualmente in esame in seconda lettura a Palazzo Madama, nel perimetro del governo sembra si stiano delineando due approcci differenti. Uno è teso a smorzare, per quanto possibile, i focolai di polemica ideologica con la magistratura organizzata, ponendo il focus sul merito della riforma e sui benefici che ne deriverebbero per i cittadini, con l'intento di evidenziarne l'impatto sul sistema giustizia e quindi sulla vita di tutti i giorni. L'altro, invece, si pone nel solco di una dialettica a tratti infuocata che anima il dibattito italiano da ormai più di 30 anni, e vede un'ideale continuazione della contrapposizione – a forti tinte politiche – tra centrodestra e toghe.

A giudicare dalle dichiarazioni delle ultime settimane, stupisce il fatto che a farsi alfiere della linea “dura” contro le toghe non sia un berlusconiano della prima ora animato da revanscismo, bensì un ex- magistrato cresciuto in un partito (Alleanza Nazionale) in cui le istanze di giudici e pm sono sempre state considerate con molta attenzione, tanto da far dire allo stesso Berlusconi e ai suoi più stretti collaboratori che alla base del fallimento dei tentativi di separazione delle carriere durante i suoi governi ci fu proprio la latente opposizione del partito di Gianfranco Fini.

Si parla, ovviamente, del sottosegretario Alfredo Mantovano, che in questo frangente sta assumendo su questo fronte una postura “decisa”, sottolineando i punti in cui le posizioni dell'esecutivo appaiono inconciliabili tra l'esecutivo e i magistrati. A suffragio di questa tesi ci sono i fatti, e i fatti sono rappresentati dalle parole usate da Mantovano in alcune uscite pubbliche. Discorsi, a scanso di equivoci, non “punitivi” ma certamente severi, tesi verosimilmente a sferzare quei settori delle toghe più inclini a farsi assorbire dalla tentazione della politicizzazione del dibattito sulla riforma.

Quando il sottosegretario cita – seppure in modo edulcorato – alcuni recenti pronunciamenti di tribunali (il riferimento è in particolare alla definizione di paesi sicuri e alle ripercussioni sulle politiche migratorie del governo Meloni) parlando di «aggiramento della sovranità popolare» attraverso l'intervento «per via giurisdizionale, di norme che il Parlamento, espressione della sovranità popolare, non ha mai approvato», o ancora del «sospetto di magistrati condizionati dalla loro personale ostilità nei confronti di un certo esponente politico», è evidente l'intenzione di mantenere il focus sulla questione – innegabile - del riequilibrio dei poteri, peraltro sostenuta con grande vis polemica anche dalla presidente del Consiglio.

Ne risulta un'inevitabile reazione da parte delle toghe (puntualmente arrivata previa nota dell'Anm) e una maggiore saldatura tra le correnti più battagliere e l'opposizione politica alla riforma, come dimostra il “tour” parlamentare di Parodi e dei suoi, teso sostanzialmente a rinnovare la lealtà di Pd, M5s e Avs. Nell'impostazione scelta da Mantovano, probabilmente ha pesato anche la scelta del direttivo dell'Anm di bocciare la proposta della corrente moderata Mi (alla quale Mantovano apparteneva) di limitare le presenze delle toghe a iniziative politiche contrarie alla riforma.

Di contro, chi sembra aver scelto la linea “morbida” è il Guardasigilli Carlo Nordio, che dopo alcune polemiche frontali coi magistrati, culminate con l'intervento in aula alla Camera nel corso della discussione della mozione di sfiducia a suo carico per l'affaire Almasri, ha imboccato la via del dialogo (o quantomeno del confronto di merito) con l'Anm, testimoniato dal clima disteso registrato da entrambe le parti in occasione dell'incontro che si è tenuto a via Arenula martedì scorso. Significativo il fatto che, all'appuntamento, Nordio si sia presentato con una cartella in cui erano fissati i punti sottoposti dall'Anm all'attenzione della premier più di un mese fa a Palazzo Chigi: questioni concrete, che attengono al funzionamento del nostro sistema giustizia, come il rinnovamento dell'organico, l'Ufficio per il processo e soprattutto l'amministrazione penitenziaria. Un «confronto aperto e franco», nel contesto di un «clima collaborativo nonostante alcune divergenze», come rilevato dai presenti, che se da una parte ha potuto tenere lontane le polemiche bypassando l'argomento separazione delle carriere, ha dimostrato che è possibile concentrarsi sui temi, non prestando il fianco a strumentalizzazioni che fatalmente finiscono per cementare l'opposizione giudiziaria con quella politica.