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GIUSEPPE CASCINI PROCURATORE AGGIUNTO
La Camera dei deputati ha approvato in prima lettura la riforma costituzionale in materia di ordinamento giudiziario proposta dal governo. I toni bellicisti e trionfalistici che hanno accompagnato la discussione, in uno con la “blindatura” del testo proposto dal governo, hanno reso certamente più difficile un confronto pacato e ragionato sulle tante questioni che quella riforma pone, sulle sue ragioni e sui suoi obiettivi.
Sicuramente la riforma è espressione di un malessere profondo della classe politica nei confronti della magistratura, che, al netto di alcune provocazioni che trasudano uno spirito di vendetta e di rivalsa spesso legato a singole vicende, merita di essere analizzato e approfondito.
Il primo tema è quello del funzionamento della macchina giudiziaria.
I tempi lunghi delle procedure, la ipertrofia dei procedimenti, la difficile prevedibilità degli esiti dei giudizi sono all’origine di una grave crisi di credibilità del sistema giudiziario.
Nel processo penale la centralità del dibattimento, immaginata dalla riforma del 1988, è rimasta una chimera e si è creato un oggettivo squilibrio in favore della fase delle indagini preliminari, con una enfatizzazione del ruolo, anche mediatico, del pubblico ministero.
Esiste poi, oggettivamente, una crisi del sistema di governo autonomo, le cui gravi degenerazioni di carattere clientelare e corporativo sono di recente venute alla attenzione dell’opinione pubblica.
Sullo sfondo, infine, più o meno dichiarato, vi è il tema del rapporto “conflittuale” tra magistratura e politica e della necessità di un “riequilibrio”, che consenta di ridurre l’invadenza del potere giudiziario nel campo della politica.
Occorre domandarsi se la riforma costituzionale proposta dal governo offra risposte adeguate ai problemi rappresentati. La mia opinione è negativa.
La separazione delle carriere non può incidere sugli attuali squilibri del processo che hanno cause complesse e molteplici: il numero troppo elevato di procedimenti e la conseguente eccessiva durata dei processi; l’ipertrofia del sistema normativo e la conseguente incertezza interpretativa di leggi e regolamenti; l’assenza, o il cattivo funzionamento, di strumenti di regolazione e di controllo diversi dal diritto penale, che consentano di risolvere i problemi “a monte”, prima che intervenga l’indagine penale.
Un ordine separato di pubblici ministeri, autonomi e indipendenti, con un proprio organo di autogoverno, rischia di accentuare anziché ridurre i difetti dell’attuale sistema. È, infatti, concreto il rischio che si diffondano e generalizzino atteggiamenti e comportamenti che già oggi in parte si registrano, con una maggiore torsione in chiave antigarantista della fase delle indagini preliminari: la logica di risultato, cioè la ricerca della “vittoria” nel processo mediante la condanna dell’imputato; la trattazione di casi con forte impatto mediatico e la diffusione dei risultati delle indagini, con un rafforzamento dei legami con la stampa specializzata; il legame con le forze di polizia, con una maggiore difficoltà a svolgere indagini su eventuali comportamenti illegali degli appartenenti alle forze dell’ordine.
Davvero si ritiene che il presunto rafforzamento della terzietà del giudice, che si indica come miracolistico risultato della riforma, sia idoneo da solo a far fronte a tali pericoli? A me pare di no. Per questo molti giuristi ritengono che uno dei pericoli della riforma sia quello, in prospettiva, di determinare un affievolimento delle garanzie di indipendenza del pubblico ministero. Perché dalla separazione sarebbe ben difficile tornare indietro e allora l’unico rimedio allo straripante potere di questo piccolo corpo di funzionari sarebbe quello di creare forme di controllo sul loro operato da parte del potere politico.
Quanto al sistema di governo autonomo, e alle gravi degenerazioni di carattere corporativo e clientelare che sono venute sempre più all’evidenza, a me pare del tutto illusorio pensare che la proposta del sorteggio dei componenti degli organi di governo autonomo (sia togati che laici) possa incidere su questi mali. Corporativismo e clientelismo sono pericoli immanenti in ogni sistema di governo autonomo. È sufficiente guardare al funzionamento degli ordini professionali (avvocati, medici, commercialisti) per averne piena conferma. Per non parlare delle carriere universitarie.
Ed è un errore e una illusione pensare di sconfiggere questi mali “spezzando le reni al sistema delle correnti”. In realtà, a mio avviso, la “modestia etica” che è venuta alla attenzione del grande pubblico negli ultimi anni (ma che molti di noi avevano già visto e denunciato molto prima) non dipende da un eccessivo potere delle correnti, ma semmai, paradossalmente, dalla loro debolezza, cioè dalla loro incapacità di essere portatori di valori e ideali e dalla loro trasformazione in comitati elettorali a base personale e territoriale, concentrate quindi sulla ricerca del consenso, anche attraverso meccanismi clientelari.
In un sistema di governo autonomo l’unico argine alle derive corporative e clientelari può venire da forme di organizzazione del consenso fondate su ideali e valori, da aggregazioni in grado di dialogare con la società civile e di confrontarsi, anche con capacità autocritica, con il mondo esterno. Questo è stato per anni il portato (di alcune) delle correnti della magistratura italiana. Ed è la perdita di questo ruolo da parte delle correnti una delle cause della grave crisi che stiamo attraversando.
Non è facile invertire questa tendenza, ma non è difficile, per chi conosce la magistratura, prevedere che con il meccanismo del sorteggio le derive corporative e clientelari finiranno per aumentare.
Anche in questo caso, dunque, come per la separazione delle carriere, appare legittimo dubitare che sull’analisi ragionata delle cause dei fenomeni e sulla ricerca di soluzioni condivise prevalga un desiderio di rivincita e di rivalsa nei confronti della magistratura. Altre sono, a mio avviso, le soluzioni da ricercare attraverso un dialogo costruttivo tra tutti gli operatori.
Il primo male da sconfiggere è quella della eccessiva durata dei giudizi, perché esso è la causa prima di tutti i difetti del sistema. Il numero abnorme di processi e la impossibilità di garantire una durata ragionevole dei giudizi rende impossibile ( o difficilissima) ogni forma di controllo sulla responsabilità professionale degli operatori, favorisce opacità nei comportamenti e incontrollabilità delle scelte.
Sul versante del governo autonomo, alcuni interventi potrebbero portare ad un miglioramento della situazione. Ad esempio andrebbe seriamente considerata la proposta avanzata da alcuni componenti laici della scorsa consiliatura di prevedere un rinnovo parziale dei componenti del CSM, in modo da impedire (o ostacolare) la formazione di “maggioranze” all’interno della istituzione. E poi servirebbe una legge elettorale proporzionale con collegio unico nazionale, per togliere peso ai comitati elettorali, per garantire la rappresentanza anche di minoranze indipendenti e per costringere le correnti a indicare candidati non di apparato e consentire agli elettori di scegliere all’interno della lista i rappresentanti più affidabili.
Per quanto riguarda il disciplinare andrebbe rafforzato il potere di azione che oggi è esercitato poco e male dal Ministro e dal Procuratore generale. Si potrebbe ad esempio pensare alla creazione di una autorità indipendente con poteri investigativi. Tale autorità potrebbe anche svolgere compiti di verifica sulla efficienza organizzativa degli uffici giudiziari e di controllo sull’operato dei magistrati ( attività che oggi sarebbero demandate all’Ispettorato presso il Ministero che pure non ha dato grande prova di sé).
Infine, invece di separare le carriere si dovrebbe, a mio avviso procedere ad una ulteriore unificazione delle carriere. Riprendo qui una proposta da me già avanzata molti anni fa. Tra i tanti problemi del sistema giudiziario italiano uno dei più gravi è quello della assistenza legale dei meno abbienti. L’attuale sistema di patrocinio gratuito ha costi enormi e risultati del tutto insoddisfacenti. In molti paesi avanzati, penso agli Stati Uniti, alla Gran Bretagna, alla Svezia, al Brasile sono stati istituiti uffici di difesa pubblica che garantiscono la assistenza legale a chi non può pagarsi un avvocato.
Ebbene la introduzione di questa istituzione anche nel nostro paese oltre a risolvere la grave ingiustizia della assenza di tutela legale per i poveri potrebbe consentire di accorpare in una “unica carriera” tutte le professioni.
L’idea è quella di prevedere un concorso unico per magistrati e avvocati. La prima esperienza professionale dovrebbe essere presso un ufficio di difesa pubblica, una esperienza che aiuterebbe a formare nel futuro magistrato una piena consapevolezza dei rischi derivanti dall’esercizio di questo “terribile potere”. Dopo un congruo periodo si potrà scegliere se diventare magistrato o avvocato del libero foro.
Un’unica carriera, un unico percorso professionale, una comune consapevolezza del ruolo della giurisdizione come strumento di tutela e di affermazione dei diritti fondamentali delle persone.
Quanto alla necessità di stabilire un diverso equilibrio tra magistratura e politica, io credo sia un errore pensare di affermare il “primato della politica” cercando di “tagliare le unghie” ai magistrati o di “mettere i leoni sotto il trono”.
Si pensi, ad esempio, al tema della responsabilità politica o, se si vuole, al tema dell’etica pubblica. Se esistessero meccanismi, interni alle istituzioni e ai partiti, idonei ad intercettare situazioni di opacità sul piano etico, potenziali conflitti di interessi, legami con ambienti criminali etc., si eviterebbe di delegare l’intera questione dell’etica pubblica alla magistratura inquirente. Al contrario, oggi la politica rinuncia del tutto al suo potere/ dovere di vigilare sulle condotte dei propri aderenti e attribuisce una delega in bianco alla magistratura (“attendiamo il rinvio a giudizio”; attendiamo la eventuale condanna di primo grado” etc.). Salvo poi denunciare lo squilibrio nei rapporti tra magistratura e politica.
Non serve poi lamentarsi delle “invasioni di campo” dei magistrati, quando questi sono chiamati a districare testi normativi incomprensibili, involuti e contraddittori oppure a colmare lacune normative. La politica deve assumersi la responsabilità delle proprie scelte, approvando leggi chiare e comprensibili, conformi ai principi costituzionali e alle norme sovranazionali, evitando, anche in questo campo, improprie deleghe alla giurisdizione. Per affermare il primato della politica è necessario un passo avanti della politica e non un passo indietro della giurisdizione.