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Doveva pur esserci un motivo, dietro il successo riportato da Antonio Lepre alle ultime elezioni per il Csm. E il motivo è evidentemente nella sua ostinata attenzione per le condizioni di lavoro dei magistrati. Non che si tratti di un’emergenza sconosciuta, per chi si candida all’autogoverno o all’Anm. Ma Lepre - fino a pochi mesi fa in servizio come pm alla Procura di Paola e ora consigliere per Magistratura indipendente affronta il tema della “sostenibilità” in modo scientifico: «Serve metodo, ossia l’elemento spesso venuto meno nei tentativi di migliorare l’amministrazione della giustizia». In nome del metodo, e in qualità di presidente della quarta commissione, il togato di “Mi” si è messo a studiare i dati sulle richieste di prepensionamento. Ossia sui colleghi che fanno domanda per lasciare la magistratura prima di raggiungere la soglia anagrafica massima, scesa peraltro a 70 anni.
Ebbene, le statistiche dicono che negli ultimi due anni si è assistito a una vera e propria “fuga dalla giurisdizione”: molti magistrati, «soprattutto delle Corti superiori», hanno chiesto al Csm di essere congedati non appena varcata la soglia dell’anzianità funzionale, ossia i 40 anni di servizio. Come riportato due giorni fa in un ampio articolo dal Mattino, sono 232 le domande evase solo nell’ultimo anno e mezzo, un’altra trentina di “prepensionandi” attende la delibera del Consiglio. «Fa impressione anche la qualità dei magistrati ansiosi di andarsene», osserva Lepre, «spesso fior di colleghi: solo a Napoli si va dal presidente del Tribunale Ettore Ferrara alla presidente della prima sezione della Corte d’appello Maria Cultrera».
Già i dati inquietano. Inquieta ancor di più la lettura che ne dà Lepre: «C’è sfiducia nella possibilità di vedere risolti i problemi. I nodi della giustizia si cronicizzano anziché sciogliersi. E il male ormai divenuto un incubo è nel carico smisurato, nell’abnorme domanda di giustizia che impedisce letteralmente al magistrato di lavorare sulla qualità della decisione. Si è costretti a seguire solo la logica della massima quantità. Che appunto è criterio inconciliabile con l’idea di rendere sul serio giustizia». Non che dal Csm non fossero arrivate, già in passato, denunce simili. «Ma questa consiliatura», avverte Lepre, «non farà passare sotto silenzio la questione della qualità e della sua compressione, divenuta ormai inevitabile».
Con simili premesse pare destinata a consolidarsi la consonanza fra magistratura e avvocatura: il rischio di schiacciare la qualità della giurisdizione sotto il peso della sempre maggiore ansia da arretrato è stato denunciato tante volte dal presidente del Cnf Andrea Mascherin. Lepre nota come «le richieste di prepensionamento incidano in modo più pesante nelle Corti d’appello e in Cassazione, ossia proprio lì dove ci si aspetterebbe di poter svolgere un’attività di pensiero, di analisi dei problemi giuridici. Anche la Suprema corte invece trasfigura ormai in sentenzificio». Colpisce anche come la generazione in fuga «sia in particolare quella che è stata protagonista in un’epoca importante come Tangentopoli». Lo stridore fra la stagione del primato della giustizia e l’attuale delusione è ancor più insostenibile. Ma ci sarebbero due direttrici seguite dall’attuale guardasigilli, Alfonso Bonafede, che parrebbero venire incontro proprio al disagio scoperchiato da Lepre: la riforma mirata a minimizzare i cosiddetti tempi morti, sia nel processo civile che nel penale, e l’aumento di 600 unità dell’organico dei magistrati. Non basta? «Faccio una premessa: tutte le forze politiche», argomenta Lepre, «hanno sempre trasferito alla magistratura una e una sola ben precisa aspettativa: conta la quantità delle decisioni, non la qualità. Fate processi veloci e smaltite l’arretrato, punto. Ora, sa cosa succede? Che i nostri colleghi tedeschi e francesi si spanciano dalle risate, quando scoprono qual è il numero incredibile di sentenze prodotte mediamente in un anno da un giudice italiani. Siamo ai vertici delle statistiche europee. Ma più decisioni produci meno qualità c’è, inevitabilmente, in quelle decisioni, e più il cittadino ne esce deluso. Perciò in tanti fanno appello».
Col risultato che l’appello è ormai un motore ingolfato dal sovraccarico di cause. «E come ha risposto finora il legislatore? Con costi d’accesso alla giustizia sempre più alti. Risultato: abbiamo ormai un sistema plutocratico, in cui ha giustizia solo chi ha soldi. L’impiegato da 1500 euro al mese non accede al patrocinio di Stato: rinuncia alla causa, amen». Quadro da brividi. Vie d’uscita? «Ha mai sentito parlare di un’analisi seria, scientifica, sulle ragioni metagiuridiche, socio- economiche della smisurata domanda di giustizia nel nostro Paese? Si parta da quella», chiede Lepre, «e se ne traggano le conseguenze. Serve, certo, anche un intervento sul breve termine per smaltire l’arretrato. E a proposito dell’aumento di organico voluto dall’attuale ministro di Giustizia, le dico che vi scorgo un’indiscutibile buona volontà: aggiungo però che anche 600 magistrati in più rischiano di disperdersi, se non vengono distribuiti in modo razionale. Ci sono uffici giudiziari con un organico eccessivo e altri, soffocati dal carico, nettamente sottodimensionati» Si faccia presto o la situazione precipita: è questo il messaggio. «Altrimenti saranno sempre più i magistrati di spessore che se ne scappano. Chi fa il nostro mestiere conserva un io, forse ingenuo, che aspira non solo a produrre decisioni ma a rendere giustizia. E per una simile ambizione, questo è davvero un momento terribile».