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ALFREDO MANTOVANO SOTTOSEGRETARIO, GIORGIA MELONI PRESIDENTE DEL CONSIGLIO, MATTEO PIANTEDOSI MINISTRO INTERNI, CARLO NORDIO MINISTRO GIUSTIZIA, ORAZIO SCHILLACI MINISTRO SALUTE
Doveva essere una riforma diversa. Una separazione delle carriere costruita per il futuro della magistratura. Al più per un riequilibrio fra potere giudiziario e politica. E invece no. Rischia di essere una battaglia come ai tempi di Silvio Berlusconi. Tra il governo di Giorgia Meloni e le toghe sembra esplodere uno scontro senza possibile rimedio.
La riforma della giustizia pare destinata a smarrire il suo significato costituzionale e a essere travisata in un regolamento di conti. Sono le conseguenze ovvie, banali, inesorabili dell’inchiesta aperta dalla Procura di Roma nei confronti della presidente del Consiglio e dell’asse portante dell’Esecutivo per il caso Almasri: oltre alla premier, sono accusati di favoreggiamento e peculato per il rimpatrio in Libia del capo della polizia giudiziaria di Tripoli anche l’uomo chiave di Palazzo Chigi, vale a dire il sottosegretario alla Presidenza Alfredo Mantovano, magistrato; il ministro della Giustizia, ex magistrato e autore del ddl sulla separazione delle carriere Carlo Nordio; il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Il cuore del governo.
Con un linguaggio che evocherebbe un passato troppo cupo e plumbeo per non stridere con i principi che comunque sorreggono qualsiasi indagine penale, si potrebbe parlare di colpo al cuore dell’Esecutivo.
Le accuse sono, come detto, di favoreggiamento e peculato per il trasferimento di Osama Almasri in Libia a bordo di un aereo di Stato. Scaturigine dell’iscrizione a registro degli indagati scattata (con conseguente trasmissione degli atti al Tribunale dei ministri) per Meloni, Mantovano, Nordio e Piantedosi è la denuncia presentata da Luigi Li Gotti, ex senatore della dipietrista Italia dei valori, sottosegretario alla Giustizia con Romano Prodi, un passato da militante missino, tuttora avvocato penalista.
Nel suo esposto, Li Gotti cita tra l’altro l’articolo del codice penale relativo al favoreggiamento, il 378, inclusa la parte in cui il delitto è individuato anche in relazione a persone, destinatarie del favoreggiamento, che siano sottoposte a “investigazione della Corte penale internazionale”. È il caso di Almasri, perseguito appunto dalla Corte dell’Aja per una serie terrificante di atrocità, puntualmente enumerate nella denuncia di Li Gotti (“tortura, assassinio, violenza sessuale, minaccia, lavori forzati, lesioni in danno di un numero imprecisato di vittime detenute in centri di detenzione libiche”), denuncia che ha innescato l’inchiesta dei pm capitolini.
Difficile prescindere dalle dichiarazioni che la presidente del Consiglio diffonde sui social con un video: «Dunque la notizia di oggi è questa; il procuratore della Repubblica Francesco Lo Voi, lo stesso del, diciamolo, fallimentare processo a Matteo Salvini per sequestro di persona, mi ha appena inviato un avviso di garanzia (in realtà si tratta della comunicazione prevista dalla legge costituzionale, la numero 1 del 1989, che regola i procedimenti a carico dei componenti del governo, nda) per i reati di favoreggiamento e peculato in relazione alla vicenda del rimpatrio del cittadino libico Almasri».
Segue l’elenco dei presunti correi. Meloni aggiunge che l’indagine dovrebbe essere originata, «presumo», dalla denuncia «presentata dall’avvocato Luigi Li Gotti, ex politico di sinistra molto vicino a Romano Prodi, conosciuto per aver difeso pentiti del calibro di Buscetta, Brusca e altri mafiosi. I fatti: la Cpi, dopo mesi di riflessione, emette», ricorda ancora la premier, «un mandato di arresto internazionale nei confronti del capo della polizia giudiziaria di Tripoli. Curiosamente, la Corte lo fa proprio quando questa persona stava per entrare sul territorio italiano, dopo che aveva serenamente soggiornato per circa 12 giorni in altri tre Stati europei. La richiesta di arresto non è stata trasmessa al ministero italiano della Giustizia, come invece è previsto dalla legge, e per questo la Corte d’appello di Roma decide di non procedere alla sua convalida. A questo punto, con questo soggetto libero sul territorio italiano, noi decidiamo di espellerlo e rimpatriarlo immediatamente per ragioni di sicurezza, con un volo apposito, come accade in casi analoghi. Questa è la ragione per la quale la Procura di Roma indaga me, il sottosegretario Mantovano e due ministri».
Fino alla conclusione: «Io penso che valga oggi quello che valeva ieri: non sono ricattabile, non mi faccio intimidire. È possibile che per questo sia, diciamo così, invisa a chi non vuole che l’Italia cambi e diventi migliore. Ma anche e soprattutto per questo intendo andare avanti per la mia strada a difesa degli italiani, a testa alta e senza paura».
Meloni non nomina la riforma della giustizia. Non parla di rappresaglia dei magistrati per il proprio imprimatur alla separazione delle carriere. Non descrive la comunicazione ricevuta dalla Procura di Franco Lo Voi come una propaggine della rivolta Anm, culminata nello “schiaffo” di sabato scorso, nell’alzata di tacchi dei magistrati alle inaugurazioni dell’anno giudiziario scattata non appena hanno preso la parola Nordio (a Napoli) e tutti gli altri rappresentanti dell’Esecutivo (nelle altre 25 Corti d’appello italiane). Meloni evita l’immediata sovrapposizione fra il caso Almasri e il conflitto fra governo e Anm anche per non schiacciarsi sul paradigma di Berlusconi.
Ma provvedono i suoi due vice, a incorniciare il caso del “torturatore libico” nel contesto della guerra con le toghe. Prime è il ministro degli Esteri e segretario di Forza Italia Antonio Tajani a pubblicare un post in cui afferma che l’iniziativa dei pm romani «assomiglia tanto a una ripicca per la riforma della giustizia». Poi è Matteo Salvini a scrivere più o meno la stessa cosa, a scandire «vergogna, vergogna, vergogna», a “rivendicare” che si tratta dello «stesso procuratore che mi accusò a Palermo» e che «ora ci riprova a Roma con il governo di centrodestra». Fino alla formula liturgica ormai immancabile per il vicepremier del Carroccio: «Riforma della giustizia, subito!».
Si scatena un uragano di dichiarazioni. Su tutte, la cupa previsione di un altro big dell’Esecutivo, il ministro della Difesa Guido Crosetto, almeno lui risparmiato dall’inchiesta e però pronto a risfoderare la profezia di un paio d’anni fa: «Parlai di opposizione giudiziaria come maggior avversario politico di questo governo. L’assurdo avviso al presidente del Consiglio, al ministro dell’Interno, al ministro della Giustizia e al sottosegretario alla Presidenza, a due giorni dalla incomprensibile protesta dell’Anm, costituisce un ulteriore atto per cercare di avvelenare il clima politico, istituzionale e sociale».
Nella tempesta che infuria, è difficile stabilire il confine tra casualità e determinazione. Come quasi sempre per le scintille che fanno deflagrare i conflitti.