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PRESENTAZIONE DELL AREA INDUSTRIALE INTERNA DEL CARCERE DI BOLLATE
A Pordenone, sabato scorso, Carlo Nordio ha visitato un carcere, o meglio un progetto di futuro carcere, che ha definito il suo «sogno». Dentro ci saranno infatti «spazi» diversificati, per «dare la possibilità di fare sport all’aperto e di lavorare».
Intanto andrebbe notato che il ministro della Giustizia del governo democraticamente eletto ha del tutto ignorato un’altra tipologia di spazi, che pure la Corte costituzionale – organo di garanzia alle cui pronunce il governo avrebbe l’obbligo di attenersi, ma vabbè – che la Consulta, si diceva, ha individuato come irrinunciabili: gli spazi per l’affettività di chi è dietro le sbarre.
Sport sì, lavoro eccome ma niente sesso, sono detenuti.
Questa però è una digressione. Il punto è un altro: Nordio ha esaltato la caserma, dismessa da vent’anni, “Fratelli Dall’Armi” di San Vito al Tagliamento (appena fuori Pordenone), il futuro carcere “multifunzione” di cui sopra, nella consapevolezza che la stessa ex caserma potrà ospitare reclusi non prima del 2027, come sempre sabato mattina hanno confermato le altre autorità coinvolte, col guardasigilli, in quel progetto.
Nella migliore delle ipotesi, la nuova struttura penitenziaria allevierà il tragico – in quanto istigatore di suicidi – sovraffollamento delle carceri italiane fra due anni. Qualora i suicidi continuassero a far registrare la macabra statistica del 2024 – quando sono stati 89 – e di questo scorcio del 2025 – siamo già a 13, l’ultimo oggi a Cremona –, quel «sogno» nel cuore del Friuli si realizzerebbe dopo altri 200 morti, sempre nella meno sanguinaria delle ipotesi.
È davvero questa la risposta più sensata di uno Stato democratico e del suo governo al sovraffollamento e alla disumanità delle prigioni? Ci pare difficile. Anche perché, a fronte del carcere modello sognato da Nordio, Maurizio De Lucia, capo della Procura di Palermo, ha detto che, di fatto, il sovraffollamento aiuta la mafia.
Ebbene sì, avete capito bene. In una imprescindibile intervista a Giovanni Bianconi pubblicata ieri sul Corriere della Sera, De Lucia ha spiegato che se si è arrivati al punto da registrare come fenomeno diffusissimo l’uso, da parte dei boss, dei telefonini in cella, è perché «nelle carceri ci sono troppe persone e poco controllate». È una deriva in cui è impossibile sorvegliare «in maniera adeguata» chi, come i mafiosi, «realmente deve stare in carcere», ed evitare così che «continui a comportarsi come da libero».
E questo considerato che invece «la pena non può essere solo detentiva» e che, secondo il procuratore di Palermo, «sarebbero utili forme sanzionatorie distinte per tipologie di condannati e di reati. Il recupero dei tossicodipendenti», per esempio, «non può passare dalla prigione, come non dovrebbe starci chi ha disturbi mentali: più che criminali, sono malati bisognosi di assistenza, ma le strutture previste per legge», le Rems di cui ha scritto decine di volte, su queste pagine, Damiano Aliprandi, «sono largamente insufficienti, con gravi problemi di strutture e personale».
La sola via d’uscita, per uno che fa il capo dei pm nella Procura più impegnata di tutte a perseguire i mafiosi, è «superare il sovraffollamento, anche attraverso una depenalizzazione che non si fermi all’abuso d’ufficio».
E dunque: il governo punta sulla riapertura delle caserme dismesse. Non depenalizza, né provvede a decongestionare le prigioni attraverso sconti di pena. Adotta una prospettiva carcerocentrica perché è un governo di “duri”, che di fronte ai criminali non transige. Ma con una simile intransigenza, si crea il paradosso di favorire i criminali più pericolosi, cioè i boss della mafia.
I quali, grazie all’insufficienza di controlli legata, come spiega De Lucia, al sovraffollamento, possono rafforzarsi, anziché essere annichiliti, dal momento che il fatto stesso di mandare messaggi all’esterno nonostante la reclusione ripropone, come osservato sempre dal procuratore di Palermo nell’intervista al Corriere, «la continuità tra il carcere e il territorio di cui parlavano i pentiti negli anni Ottanta. Ci sono detenuti arrivati in cella al mattino che nel pomeriggio hanno chiamato a casa», con i cellulari entrati grazie ai droni, «per farsi portare accappatoio e pantofole, destando sorpresa persino nei familiari. In tal modo», è la sconcertante conclusione del discorso, anche chi nella mafia non è un «soggetto apicale» finisce per «diventarlo» grazie al «potere che è in grado di esercitare dietro le sbarre».
Bel capolavoro: a furia di essere duri e rigorosi, si rende ingovernabile la detenzione dei boss.
È il paradosso della destra intransigente, che sull’altare della propria politica penitenziaria sacrifica un centinaio di disperati l’anno, quelli che si tolgono la vita. E che forse, dice De Lucia, in qualche caso si suicidano anche perché oppressi dalla «prevaricazione» esercitata in cella dagli «esponenti delle organizzazioni criminali».
Mafiosi più potenti, disperati che si suicidano: tutto per poter dire “noi sconti di pena non ne facciamo, al più ristrutturiamo qualche caserma dismessa”. E quella più avanti coi lavori, a Pordenone, arriverà fra due anni. Davvero vi torna tutto?