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Il giornalista Alessandro Barbano
All’inizio Paola Fortuna non vuole crederci: ventiquattro immobili confiscati alla mafia tra via Matteotti e viale dei Martiri. E lei, sindaca di Pojana Maggiore, e prima ancora consigliera comunale fin dal 2009, non ne sapeva niente. Ma l’articolo del «Giornale di Vicenza», nei primi giorni di aprile del 2015, è molto dettagliato. Quei beni erano dello Stato e, sulla carta, pronti per essere assegnati a finalità pubbliche.
Allora come mai nessuno l’aveva avvisata? La risposta del funzionario prefettizio, a cui chiede spiegazioni, è laconica: non ci sono disposizioni che ci obblighino a farlo. Qualcosa di più la sindaca lo apprende dall’amministratore di condominio: si tratta di un negozio, otto appartamenti, sei magazzini e otto garage, tutti vuoti e con apposti i sigilli, mentre magari tante associazioni del territorio sono costrette a pagare affitti esorbitanti per disporre di locali adeguati.
Così la prima cittadina decide di chiamare il prefetto di Vicenza, che suggerisce di contattare l’Agenzia nazionale, il braccio operativo del ministero della Giustizia che gestisce i patrimoni dopo la confisca di secondo grado. Ma, per modalità e tempistica, quei contatti si trasformano in un’odissea burocratica.
Le telefonate e le mail all’indirizzo della sede di Milano non ricevono risposta. La sindaca è più fortunata quando decide di inviare una lettera formale alla sede centrale dell’Agenzia, a Reggio Calabria, con la quale il Comune di Pojana esprime ufficialmente la disponibilità a ricevere in destinazione i beni. Nel frattempo Fortuna ha allertato associazioni e soggetti del terzo settore perché riferiscano interessi e necessità.
Finalmente, cinque anni dopo, l’8 maggio 2020, l’Agenzia risponde con un invito a esprimere ufficialmente l’interesse alla destinazione dei beni e con l’indicazione di un professionista da contattare per un sopralluogo. E il sopralluogo arriva a distanza di due settimane, mentre il paese sta uscendo dai divieti del lockdown pandemico.
L’incaricato dell’Agenzia nazionale si presenta all’appuntamento, ma non ha neanche le chiavi degli edifici sequestrati e dunque non è possibile verificarne la consistenza e lo stato di conservazione.
La sindaca non si dà per vinta. L’8 giugno, con delibera all’unanimità dell’amministrazione comunale, la manifestazione di interesse viene inviata all’Agenzia. Al buio.
In un modo o nell’altro quei locali possono essere utili: il Comune di Pojana progetta di insediarvi alloggi per anziani, per famiglie disagiate e per le forze dell’ordine, una comunità educativa per minori e un ambulatorio medico. Ma i buoni propositi della giunta vicentina sono destinati a smarrirsi nel labirinto kafkiano dell’Antimafia. Perché tutti i ventiquattro locali erano sì confiscati dal 14 settembre del 2017, ma quasi tre anni dopo restava ancora da definire la procedura di accertamento dei diritti dei terzi.
L’assegnazione non sarebbe potuta avvenire se il giudice delegato non avesse approvato il pagamento dei cosiddetti «crediti di buona fede», nei confronti dei soggetti che vantavano su quegli immobili pretese esigibili. Si trattava di quantificarle, reperire le risorse per soddisfarle mettendo all’asta e vendendo una parte di quei beni, pagare i creditori e finalmente consentire all’Agenzia di assegnare al Comune i beni rimasti. Due procedure complesse fanno un mostro burocratico.
Tra il 2020 e il 2021 il Comune ha inoltrato tre richieste di informazioni all’Agenzia nazionale sullo stato della procedura, ricevendo risposte vaghe e oscure, inutili a programmare, e perfino a capirci qualcosa. In realtà la povera sindaca di Pojana Maggiore non sapeva che stava andando a sbattere contro un meccanismo infernale. Perché se la verifica dei crediti richiede quattro anni, in un rimpallo di competenze vecchie e nuove tra giudice delegato e Agenzia nazionale, la vendita potrebbe richiederne il doppio.
La vendita è il tabù dell’intera normativa della prevenzione. Il rischio che i beni ritornino nelle mani della criminalità organizzata ha suggerito al legislatore una serie di limiti e divieti che somigliano ai paletti di uno slalom.
Si aggiunga che l’Agenzia nazionale può avocare a sé l’intero procedimento, ma la liquidazione del patrimonio confiscato si svolge ignorando le preferenze del Comune sui beni da preservare, poiché non esiste tra i due enti alcuna collaborazione operativa. Le scelte dell’Agenzia potrebbero non tenere conto delle esigenze manifestate da Pojana Maggiore, ma soprattutto il Comune non sarà mai informato di quali beni saranno venduti e quali gli saranno assegnati. Cosicché la sindaca non potrà neanche portarsi avanti con la procedura per conferirli alle associazioni no profit coinvolte. La destinazione delle confische è un’interminabile gimcana condannata a finire in un vicolo cieco.
Poi, finalmente, quando ormai la sindaca ha perso le speranze, a giugno 2022 arriva al Comune il piano di liquidazione del giudice delegato, con la notizia che le ipoteche sui beni saranno estinte con una parte della liquidità confiscata ai titolari del patrimonio. Dopo sette anni l’incredibile vicenda sembra essere giunta al termine. A quel punto Fortuna contatta ancora l’Agenzia nazionale per sapere se è ipotizzabile una data per l’assegnazione.
Dall’altro capo del telefono l’incaricata la gela con queste parole: «Come, non ha saputo? I beni sono stati messi a disposizione delle prefetture, perché potrebbero servire a ospitare i profughi ucraini». «No, non ho saputo niente. E chi avrebbe dovuto dirmelo?» La successiva telefonata alla prefettura di Vicenza conferma il provvedimento che sospende l’assegnazione: «È arrivata una circolare da Roma – le spiega il funzionario –, abbiamo già fatto un sopralluogo nei locali per verificarne l’idoneità ad accogliere persone». Buono a sapersi.
È una storia tanto paradossale da dubitare che sia realmente accaduta. E invece l’errore più grande che si possa commettere è considerarla un’eccezione. Al contrario, si tratta della regola, per stessa ammissione della Commissione parlamentare. Che non a caso invoca,
com’è suo costume e in spregio a qualunque garanzia di difesa, «un’assegnazione provvisoria agli enti locali, anziché aspettare anni per la destinazione del bene, spesso non verificandone le condizioni di degrado o di occupazione abusiva, accumulando debiti per spese condominiali non pagate». L’assegnazione provvisoria è un rimedio peggiore del male, perché legittima un esproprio arbitrario, senza neanche le garanzie minime del procedimento di prevenzione.
Tuttavia questa surreale proposta mostra l’abisso di un sistema che ha prodotto una gigantesca manomorta pubblica, in assenza di qualunque capacità gestionale.
I beni confiscati sono il vero buco nero della democrazia italiana. Lo ha dovuto constatare amaramente Marta Cartabia poche settimane dopo la sua nomina a ministra della Giustizia: «Sembra incredibile» ha detto la guardasigilli in audizione alla Commissione antimafia, ammettendo che lo Stato non conosce esattamente il numero e la tipologia dei beni sequestrati e confiscati nei procedimenti di prevenzione e ignora, in quanto non rilevati, quelli relativi al processo penale.
Prima di lei lo aveva denunciato la Corte dei Conti, non senza far notare che questa unica e inaccettabile forma di ignoranza pubblica è tanto più grave se si pensa che negli ultimi dieci anni sono stati erogati notevoli finanziamenti per tre diversi sistemi informatici. Che nulla potevano contro i ritardi dei tribunali nell’iscrizione delle misure di prevenzione e contro il mancato dialogo tra questi e gli amministratori giudiziari e tra questi e l’Agenzia nazionale. Secondo quanto racconta la relazione della Commissione antimafia, il flusso dei dati pervenuti all’Agenzia per via telematica è pari a meno del 10 per cento dell’intero ammontare dei dati trasmessi; il restante 90 per cento arriva per via cartacea e con i tempi biblici della burocrazia giudiziaria.
Un altro grave sbaglio sarebbe credere di poter derubricare una simile giungla come un disordine burocratico della macchina della giustizia. In realtà è lo specchio di un’irresponsabilità del potere nella quale sfuma qualunque distinzione tra l’esercizio della legalità e l’abuso. Il sistema della prevenzione è un elefantiaco reticolo di relazioni arbitrarie, fondate su un rapporto fiduciario che talvolta coincide con un rapporto amicale, e regolate da una discrezionalità amplissima. Che per un decennio ha distribuito deleghe, incarichi e consulenze senza limiti e senza controlli effettivi, e che tutt’ora resta un universo opaco.
L’Osservatorio permanente sulla raccolta dei dati relativi ai beni sequestrati e confiscati, insediato dalla guardasigilli Marta Cartabia il 21 giugno 2022, dispone di una mappa parziale e generica di questa babele, ma i pochi dati a disposizione bastano a certificarne il fallimento: le aziende sequestrate o confiscate, affidate alla gestione degli amministratori giudiziari, risultano essere 2.245, ma solo 145, cioè il 6,5 per cento, sono attive. Per le altre 2.100 la misura di prevenzione è stata la condanna a morte.
Ma le dimensioni del fenomeno reale sono ben diverse. I dati raccolti dalla Banca centrale del ministero della Giustizia, citati da Marta Cartabia nella sua audizione, indicano la cifra monstre di 215.995 beni fin qui coinvolti nelle misure di prevenzione. Di questi 81.913 sono stati confiscati. Nel solo 2020, anno della pandemia, in cui tutto pare essersi fermato tranne la macchina dell’Antimafia, i procedimenti di prevenzione patrimoniale sono stati 10.239, contro i 9.813 dell’anno precedente.
Per incompleti che siano, questi dati provano un fallimento che certamente non giova alla lotta contro la criminalità organizzata. Al netto dei ritardi nella destinazione dei beni, del dialogo inesistente tra l’Agenzia nazionale e le procure, della scarsità di risorse nelle casse dei Comuni, della sospensione o della revoca, da parte delle banche, delle linee di credito, la morte delle aziende e il degrado dei patrimoni confiscati hanno una ragione più profonda, che si finge di non vedere: il flop dell’idea che il pubblico possa sostituirsi ai privati nella gestione d’impresa, e soprattutto che possa farlo attraverso soggetti delegati, gli amministratori giudiziari, che con la cultura d’impresa spesso hanno poco a che fare.
Ce lo vedete un avvocato o un commercialista a gestire un cantiere edile, un autosalone o un’azienda agricola? E un prefetto a fare il manager? Perché è questo lo scenario che si profila all’orizzonte. Dal 2017 ai profili delle libere professioni, già inadeguati, la legge ha aggiunto anche il personale dell’Agenzia nazionale: una parte è infatti stata abilitata alla mansione di amministratore giudiziario, maturando uno specifico scatto di qualifica e salariale.