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Si dice che nella Piana di Gioia Tauro ci siano gli ulivi più alti del mediterraneo, il segno di una terra resa fertile dal sudore e dal lavoro duro dei contadini. Generazioni cresciute con il desiderio di affrancarsi dalla condizione di bracciante, le lotte del ‘900 hanno reso possibile quel sogno di liberazione dallo sfruttamento selvaggio. [embed]https://youtu.be/y_yxukBmedc[/embed] Ma ora quella terra è percorsa da nuovi schiavi, i migranti africani, ma anche rifugiati o titolari di protezione internazionale che sono giunti in Italia negli ultimi anni. Sono circa 3500, distribuiti sul territorio popolando insediamenti informali che si formano per la stagione della raccolta della frutta. Arance, mandarini o kiwi che finiscono sulle nostre tavole ma la cui dolcezza nasconde un’amara realtà. Pratiche illecite come il caporalato, abitazioni segnate dal degrado, una marginalizzazione sociale che perdura nel tempo. Medici per i diritti umani (Medu) lavora da almeno cinque anni in queste baraccopoli prestando assistenza sanitaria, un punto di vista tristemente privilegiato per capire cosa succede. Jennifer Locatelli, coordinatrice del progetto Terra giusta, racconta questa situazione nel corso della presentazione del rapporto I Dannati della Terra, avvenuta a Roma nella sede di Stampa estera il 3 maggio. «E’ il quinto anno consecutivo che siamo presenti nella Piana di Gioia Tauro e anche quest’anno abbiamo voluto pubblicare un rapporto che denunciasse la situazione estremamente drammatica che si vive nella Piana in quello che è diventato uno dei ghetti più grandi d’Italia. Sono stati pubblicati altri rapporti, come quello dell’Arpa della Regione Calabria, sulla potenziale tossicità del sito e quindi della pericolosità per le gravi condizioni igieniche sanitarie». Nonostante questo la situazione sembra rimanere immobile. Solo pochi mesi fa, a gennaio, una ragazza nigeriana, Becky Moses, ha perso la vita a causa di un rogo scoppiato nell’insediamento di San Ferdinando. E’ in questa zona che si concentra il 60% dei braccianti africani, per la maggior parte vivono nella vecchia tendopoli a pochi passi da Rosarno dove nel 2010 scoppiò la rivolta dei lavoratori immigrati. Da allora, nonostante il clamore suscitato dall’episodio, le condizioni di vita sono sempre le stesse: bombole del gas per riscaldarsi e cucinare, bagni fatiscenti, generatori a benzina, materassi buttati a terra e il pericolo ricorrente di incendi. «Negli ultimi due anni si sono susseguiti protocolli convenzioni - spiega Jennifer Locatelli - soprattutto dopo il rogo nel quale ha perso la vita la giovane donna nigeriana Becky Moses, eppure si vede ancora molto poco. Tante parole sulla carta ma aspettiamo di capire quali sono i passi concreti che saranno adottati, le tempistiche e i fondi». Che in tutto ciò esista un’evidente responsabilità delle istituzioni, non solo locali, lo confermano le parole di Mamadou Dia. Ex bracciante, arrivato in Italia nel 2010, dopo un anno da buttafuori ha iniziato il suo percorso da lavoratore stagionale, prima Foggia e poi la Calabria. Ora Mamadou lavora come mediatore culturale proprio nella Pana, spiega come non si tratta di un’emergenza perché è da troppi anni che esiste il problema. la latitanza di politiche vere rende i braccianti africani gente invisibile e non gli permette di vivere una vita normale. «Noi abbiamo informazione che nella Piana di Gioia Tauro ci sono almeno 35000 case vuote - dice il mediatore culturale -, quindi se parliamo di abitazioni le soluzioni ci sono. Invece di buttare milioni per le tendopoli. Dal punto di vista lavorativo, il problema è che non esistono delle liste di prenotazione quindi le persone vanno per la strada a cercare lavoro. Così molti agricoltori del posto si approfittano di questi braccianti. Se il centro dell’impiego o l’inps vedono cose che non funzionano ma non intervengono significa che le istituzioni non ci sono. Si lavora per 20-25 euro quando il salario lordo dovrebbe essere di 42 euro lorde al giorno. la legge c’è, è bellissima ma non viene applicata».