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«No a un suicidio “medicalmente” assistito». È drastica la posizione della Federazione nazionale degli ordini dei medici, emersa a Parma, durante il convegno Nazionale “Il suicidio assistito tra diritto e deontologia. La legge, il consenso e la palliazione”, organizzato sotto l’egida Fnomceo, dall’Omceo Parma e dal Gruppo di lavoro su Suicidio Assistito e Eutanasia della Consulta Nazionale Deontologica. Una posizione che si schiera nettamente contro le aperture derivanti dalla sentenza della Corte Costituzionale sulla non punibilità dell'aiuto all'interruzione della vita in situazione di grave sofferenza personale relativa al processo al Radicale Marco Cappato, che aveva aiutato Dj Fabo a porre fine alla sua vita. Una posizione che verrà analizzata dal Consiglio nazionale dei 106 presidenti degli ordini locali prevista a novembre. Il medico, di fronte al fine vita, «lenisce il dolore, non uccide», si legge in una nota pubblicata sul portale della Federazione. E lo fa attraverso la palliazione e terapia del dolore, «per le quali lo Stato deve prevedere più risorse». Impossibile immaginare dunque Si esclude quindi un coinvolgimento attivo e diretto del medico nel processo suicidario. «Il medico ha per missione quella di combattere le malattie, tutelare la vita e alleviare le sofferenze. Quello del suicidio assistito è quindi un processo estraneo a questo impegno - affermano i medici - Un compito ricco di un’esperienza millenaria ma anche moderna poiché incarna nell’agire professionale i principi della Costituzione (Articolo 32 in primis). Siamo in una società pluralista e la nostra posizione è quella di curare tutti senza discriminazione alcuna secondo scienza e coscienza, a prescindere da credi religiosi, filosofici, culturali, rispettando il diritto del cittadino all’autodeterminazione anche nei casi di suicidio, così come previsto dalla Corte Costituzionale». Decidere della propria salute autonomamente e liberamente è un diritto, continuano i medici, «lo stesso principio deve poter valere anche per il medico che si considera fermo sostenitore della tutela della vita», sostiene Filippo Anelli Presidente Fnomceo. «Quindi si vuole certamente rispettare la volontà di chi decide di porre fine alla propria esistenza ritenuta troppo penosa e non più degna di essere prolungata, nei limiti previsti dalla Corte Costituzionale, ma si chiede anche di lasciare la nostra categoria estranea a questo atto suicidario. Il medico non abbandonerà mai a se stesso il paziente - aggiunge - assicurerà sempre le cure palliative per contenere il dolore sino alla sedazione profonda e sarà presente fin dopo il decesso, che certificherà, ma non compirà l’atto fisico di somministrare la morte». Anelli pone il problema della raccolta del consenso e della persona preposta ad aiutare il paziente a morire. «Forse è ragionevole supporre che debba essere il paziente stesso a poterlo decidere, a scegliere ad esempio un fratello, il coniuge, un genitore, ma non il medico, a meno che non lo faccia nella posizione di amico o parente del richiedente, non certo nel ruolo di professionista della salute - conclude Anelli - Perché il medico di fronte al fine vita, lenisce il dolore, non uccide». «Stella polare che guida la nostra categoria è infatti la deontologia che vede al centro il rispetto dei valori della vita del paziente e della sua dignità, nel vivere come nel morire, non accettando d’essere pedine di una legislazione che non tenga conto della coscienza del medico, che segue la logica del fare il bene del paziente sia nella malattia sia nella fase della terminalità», spiega Pierantonio Muzzetto, presidente della Consulta Nazionale Deontologica Fnomceo e dell’Omceo Parma. I principi deontologici «impongono al medico di rispettare la dignità del paziente, evitando ogni forma di accanimento terapeutico e di trattamento futile e, in ottemperanza dell’autodeterminazione del malato che esprima la volontà di rifiutare le cure, consentono il ricorso alla sedazione profonda medicalmente indotta, che è ben altra cosa dall’eutanasia attiva o passiva, poiché i farmaci e la modalità di somministrazione portano a una situazione di assenza di sofferenza aspettando l’evento naturale e non intervengono certo per ridurre i tempi di vita», continua Muzzetto. Il vero problema è la carenza organizzativa dello Stato. Il capitolo della palliazione è infatti colmo di omissioni e inadempienze: solo una piccola percentuale dei pazienti utilizza questa metodologia di cura rispetto alle reali necessità, a conferma che le due leggi sulla terapia del dolore (la legge 38/2010) e la successiva legge sul consenso e sulle Disposizioni anticipate di trattamento sono applicate in modo insufficiente e a macchia di leopardo. Da qui la necessità che il legislatore si impegni a implementarne l’uso, consentendo un’applicazione omogenea del trattamento, con adeguate risorse.