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CARLO NORDIO MINISTRO ANDREA DELMASTRO DELLE VEDOVE POLITICO
Forse bisogna far caso a due coincidenze. Antonio Tajani, fra i leader del centrodestra, è stato l’unico a liquidare esplicitamente la condanna di Andrea Delmastro come un «segnale contro la riforma della giustizia». L’altra coincidenza è nella nota diffusa dall’Anm, in cui si dice che «la vicenda del sottosegretario» dimostra come il pm possa «chiedere l’assoluzione, nonostante la sua carriera non sia separata da quella del giudice» e il giudice non sia «succube del pm». Il tutto prova «l’inutilità» della «separazione» disegnata da Carlo Nordio.
A lasciar gonfiare le vele della riforma sotto il vento impetuoso della sentenza sul caso Cospito è dunque il capo del partito che, nella maggioranza, più si spende affinché il ddl del guardasigilli arrivi a destinazione nella forma originaria. D’altro canto, l’Associazione nazionale magistrati intuisce che, con la condanna a 8 mesi inflitta a Delmastro, la tensione è risalita al punto da indebolire la linea trattativista di Alfredo Mantovano, da renderla anzi quasi impraticabile.
Ora è davvero difficile che Giorgia Meloni assecondi le analisi del proprio pur fidatissimo sottosegretario alla Presidenza.
Addolcire i contenuti del ddl sulle carriere separate in una fase del genere – che è decisiva, perché la riforma Nordio o cambia ora o davvero non cambia piu – non avrebbe senso. Dal punto di vista di Meloni, negoziare con la magistratura, a questo punto, sarebbe un paradosso. Non ci sono più le condizioni per una trattativa al ribasso. Non c’è più spazio per valutazioni come quelle proposte da Mantovano negli ultimi giorni, secondo le quali ci sarebbe stato un margine per portare a casa la separazione delle carriere senza aprire, con l’Anm, una frattura insanabile: per esempio, con il sorteggio dei togati Csm derubricato da “puro” a “temperato”, e con la rinuncia allo sdoppiamento dell’organo di autogoverno, in favore di una meno traumatica divisione dell’attuale Consiglio superiore in due sezioni (ma inevitabilmente con un plenum unico).
Non c’è più margine per discuterne, dopo lo “choc” della sentenza Delmastro. Poi certo, fra meno di due settimane, il 5 marzo, il “padre” delle carriere separate, Nordio, incontrerà i vertici dell’Anm. Vedrà innanzitutto il nuovo, contestato (dalle correnti dell’Anm stessa) neopresidente delle toghe Cesare Parodi. Ma è improbabile che possa offrigli un restyling mitigato della propria riforma.
Si diceva che anche la nota diffusa dall’Anm ha un peso. Il sindacato delle toghe sostiene che la condanna del sottosegretario alla Giustizia dimostra che già ora la magistratura giudicante è autonoma dai colleghi requirenti. È un’analisi non proprio d’acciaio: si può dire, più che altro, che la questione Delmastro incrocia poco le ragioni profonde della “separazione”, e cioè il rischio che i giudici siano condizionati dal protagonismo mediatico e dal conseguente strapotere correntizio, “sindacale” e “ordinamentale” dei pm.
Altri, anche ai vertici dell’Esecutivo, e anche dalle parti di via Arenula, sono arrivati a leggere, dietro la sentenza sul sottosegretario di FdI, non tanto una valutazione del giudice autonoma dalla Procura ma una forzatura interpretativa condizionata – anche – dal conflitto fra governo e magistratura. C’è chi, fra presidenza del Consiglio e ministero della Giustizia, teme che il Tribunale di Roma sia stato condizionato anche da una sorta di istinto corporativo. È una tesi indimostrabile, di per sé iperbolica. Ma quel che conta è quel comunicato con cui l’Anm cerca implicitamente di dire al governo: sbagliate a trarre dalla condanna di Delmastro la sollecitazione a irrigidirvi sulle carriere separate. È interessante, questa premura dell’Anm, perché conferma in modo indiretto quanto sia inevitabile che invece a Palazzo Chigi prevalga, a questo punto, proprio il no alla trattativa con le toghe.
Ieri sera, ha precisato via Arenula, Nordio non ha incontrato Meloni. In ogni caso cambia poco. Resta un fatto: nelle riflessioni che ha comunque condiviso, nei giorni precedenti, con la presidente del Consiglio e con il sottosegretario Mantovano, il guardasigilli ha ribadito come l’ipotesi di rinunciare, nella riforma sulle carriere, al doppio Csm, sia, per lui, per il titolare della Giustizia, problematica: senza un Consiglio superiore dei giudici “liberato” dalla presenza dei pm, e sorteggiato in modo che i pm non possano condizionare le carriere dei giudici neppure attraverso i colleghi che, pur provenienti dal giudicante, rispondono spesso alle indicazioni delle correnti egemonizzate dai pubblici ministeri, l’intera riforma si sbriciolerebbe.
Con quell’eventuale modifica, il “divorzio” fra il giudice e una delle due parti del processo penale, cioè il pm (l’altra parte è l’avvocato), di fatto non ci sarebbe più. Giudicanti e requirenti resterebbero uniti nel loro destino, indissolubilmente legati dalle decisioni sulle loro carriere. Nordio ne è convinto. Ma Mantovano aveva rappresentato, a lui e a Meloni, i rischi di una contrapposizione radicale coi magistrati. E Meloni non avrebbe urtato a cuor leggero i sentimenti di una base come quella di FdI, certo non ostile alla magistratura come poteva esserlo il “vecchio” popolo berlusconiano. Ma lo scenario, nel giro di una sentenza, si è rovesciato, forse irrimediabilmente.