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Giulia Bongiorno e Matteo Salvini dopo il voto finale sulla legittima difesa in Senato
Spiazzato dalla diretta televisiva cui si era trovato a partecipare domenica sera, collegato con la 7, sullo sbarco a Lampedusa dei 45 migranti dalla nave Sea Watch 3, Matteo Salvini si lasciò andare a proteste più o meno minacciose contro la Procura di Agrigento, che lo aveva disposto. Ma da quella posizione il leader leghista è poi arretrato con dichiarazioni fiduciose di allineamento alle indagini giudiziarie e al sequestro probatorio della nave dei soccorsi. La cui esecuzione ha comportato lo sbarco sgradito. Egli si è limitato ad augurarsi che quella nave non sia più messa in condizione di disattendere le direttive del Viminale.
Fra i consigli portati a Salvini dalla notte fra domenica e lunedì ho motivo di ritenere che vi siano stati anche quelli della ministra leghista della funzione pubblica Giulia Bongiorno. Che già si è rivelata utile al vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno in occasione del tentativo del cosiddetto tribunale dei ministri di Catania di mandarlo sotto processo per sequestro aggravato di persone sulla nave “Diciotti”, ancorata nell’estate scorsa nel porto etneo.
Alla ministra Bongiorno non dev’essere sfuggito un precedente dell’ottobre 1994, quando il primo governo Berlusconi, già costretto in estate dalle proteste dei magistrati di Milano a rinunciare alla conversione di un decreto legge che limitava il ricorso alle manette, era ricorso al Consiglio Superiore della Magistratura contro il capo della Procura della Repubblica ambrosiana, Francesco Saverio Borrelli. Che pure non aveva adottato provvedimenti, ma “solo” anticipato in una intervista al Corriere della Sera possibili sviluppi a carico di “politici molto in alto” nelle indagini in corso su Telepiù.
Il magistrato aveva inoltre dato dell’” imprudente” al Guardasigilli Alfredo Biondi, che per protesta aveva presentato le dimissioni, respinte immediatamente dal Consiglio dei Ministri con espressioni di solidarietà. Nel rivolgersi al Consiglio Superiore della Magistratura il presidente del Consiglio si era sentito minacciato dall’intervista di Borrelli nell’esercizio delle sue funzioni, richiamandosi all’articolo del codice 289 del codice penale, che punisce sino a 24 anni di carcere l’attentato agli organi costituzionali. Scalfaro, destinatario della protesta nella doppia veste di capo dello Stato e di presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, non gradì, a dire il vero, l’intervista di Borrelli ma neppure la reazione di Berlusconi. Al quale chiese, ottenendola, una lettera suppletiva di interpretazione autentica della sua iniziativa, declassata da “denuncia”, irricevibile secondo Scalfaro, ad “esposto”.
Che, come tale, fu esaminato e discusso dall’organo di autogoverno delle toghe, giunto alla fine del mese con 25 voti contro 4 e due astensioni a un verdetto favorevole a Borrelli. Che non riuscì tuttavia ad evitare poi un’ispezione ministeriale al tribunale di Milano, ma uscendone indenne, insieme con tutti gli altri magistrati interessati all’iniziativa del Guardasigilli. Un altro tentativo d’ispezione ministeriale al tribunale di Milano fu compiuto l’anno dopo dal successore di Biondi alla guida del Ministero della Giustizia, il magistrato in pensione Filippo Mancuso. Che però ci rimise il posto, sfiduciato al Senato dalla stessa maggioranza del governo di cui faceva parte, presieduto da Lamberto Dini dopo la caduta di Berlusconi per mano della Lega di Umberto Bossi. Che anche in riferimento alla denuncia e poi esposto del Cavaliere al Consiglio Superiore per l’intervista di Borrelli aveva preso posizione contraria.
Era evidentemente una Lega di altri tempi e orientamenti rispetto a quelli di Salvini. Va detto che all’epoca della denuncia e poi esposto - ripeto- al Consiglio Superiore della Magistratura Berlusconi non incorse solo nel dissenso di Bossi, ancora partecipe della maggioranza. Il presidente del Consiglio fu spinto alla retromarcia anche dal suo braccio destro Gianni Letta, sottosegretario a Palazzo Chigi, peraltro contrariato dall’iniziativa presa dall’allora ministro per i rapporti col Parlamento Giuliano Ferrara di informare dettagliatamente il Corriere della Sera del documento inviato al Consiglio Superiore. Non fu forse casuale la decisione poi presa da Ferrara di sfilarsi dall’impegno diretto in politica, e di preferire ad altri incarichi di governo, cui avrebbe potuto ambire col ritorno di Berlusconi a Palazzo Chigi nel 2001, la fondazione e la direzione del Foglio, finanziato dalla famiglia del Cavaliere.