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La premier Giorgia Meloni
«Alea iacta est» si potrebbe dire con uno stilema abusato. Il 27 febbraio le toghe sciopereranno in difesa della Costituzione e contro il progetto di riforma all’esame del Parlamento. Qualche giorno dopo il presidente dell’Anm sarà ricevuto a palazzo Chigi per un incontro, non solo sollecitato da Cesare Parodi, ma tutto sommato reso anche necessario dal rinnovo dei vertici associativi dopo le recenti elezioni. In quali condizioni l’Anm giungerà al rendez- vous dipenderà da alcuni fattori al momento non facilmente identificabili. In uno scenario positivo, con una grande maggioranza di astensioni dal lavoro giudiziario e con una solidale partecipazione della pubblica opinione, c’è da immaginare che l’incontro partirà lo stesso con un sensibile, ma tuttavia non insuperabile disallineamento delle forze contrapposte. Una forte maggioranza di astensioni è, comunque, un segnale che la politica non può trascurare.
Se i pianeti non dovessero allinearsi e la congiuntura volgesse al peggio, la posizione delle toghe ne risulterebbe, invece, ancor di più infragilita e sarebbe un sostanziale “via libera” alla riforma e al suo temibile referendum popolare. Il dado scorre sul tavolo e non deve sottovalutarsi il fatto che l’apertura della premier Meloni alla nuova leadership dell’Anm ha prodotto crepe tra le toghe, in parte timorose che possano raggiungersi accordi al ribasso sulla riforma che la corporazione non dovrebbe o potrebbe tollerare.
Ora, escluso che l’incontro serva a ribadire posizioni ampiamente note o a stringere scellerate intese, è chiaro che l’Anm dovrà presentarsi con una proposta di dialogo che consenta una mediazione realistica. Lungo questa traiettoria è evidente che il doppio Csm e l’Alta Corte disciplinare sono due territori ampiamente negoziabili della riforma.
La costituzione di un potere inquirente, costituzionalmente speculare al potere giudicante, rappresenta la solita eterogenesi dei fini che affligge i più radicali progetti riformatori. Anziché “accontentarsi” di dar vita a una più robusta separazione delle carriere con la costituzione, a esempio, di una sezione autonoma dei pubblici ministeri, analoga a quella esistente per i giudici onorari presso i Consigli giudiziari o a dar corso alla Costituzione vigente che già prevede che «il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull'ordinamento giudiziario» (articolo 107) - con la possibilità di approntare un apposito ordinamento giudiziario per la magistratura requirente, con regole, carriere e percorsi distinti da quelli dei giudici - la maggioranza politica ha deciso di creare un nuovo potere costituzionale che spacchetta quello giudiziario e si erge ad autonoma istituzione della Repubblica.
Un moloch che tutti avvertono come pericoloso e sostanzialmente sottratto a qualsivoglia controllo con al vertice addirittura un organo di autogoverno presieduto, si badi bene, dal Presidente della Repubblica, a conferma della primaria rilevanza costituzionale del nuovo soggetto.
Ora, dovrebbe essere abbastanza semplice spiegare alla pubblica opinione e, in primo luogo, all’avvocatura associata nelle Camere penali che una costruzione di questo rango comporta immediatamente l’upgrading costituzionale e, quindi, politico e, quindi, processuale
del pubblico ministero; immacolato sacerdote di un potere che esplicita e contiene la pretesa punitiva dello Stato nei confronti di tutti i cittadini e ne interpreta le condotte in vista del processo. Per giunta una corporazione collocata in un recinto professionale insuperabile e inattingibile cui accederanno, per concorso, tutti coloro che avvertono la vocazione ideale di essere rappresentanti di una siffatta potestà, senza alcun contatto formativo – neppure embrionale - con la giurisdizione, come pure oggi accade.
Più ostico il discorso che riguarda l’Alta Corte disciplinare. La volontà di decontaminare la giustizia domestica del Csm dalla presenza delle correnti non ha mai avuto veri oppositori. E’ interesse di tutta la corporazione che il giudizio disciplinare, che è innanzitutto un pronunciamento deontologico, provenga da soggetti scevri da condizionamenti correntizi o immuni da spinte di appartenenza. Tuttavia, la magistratura sarebbe l’unica istituzione che collocherebbe la giustizia disciplinare fuori dal perimetro dell’autogoverno, affidandola a soggetti sostanzialmente e formalmente terzi. Questo può ergersi a minaccia grave per il funzionamento della giustizia disciplinare che ha bisogno, con l’alta sorveglianza della componente laica chiamata al presiederla, di magistrati che conoscano il funzionamento della macchina giudiziaria, ne intuiscano le difficoltà e le insidie, ne comprendano i rischi di disallineamento dalle prescrizioni comportamentali. Il tutto, ossia, senza la meccanicistica e asettica constatazione della violazione. Il ché non equivale a un insensato perdonismo (di cui, invero, la giurisprudenza del Csm è esente, dati alla mano), ma alla necessità di rendere il giudizio disciplinare realmente performante, adeguato e capace, quindi, di orientare i comportamenti di tutti i magistrati.
Il rischio è che, restando l’iniziativa disciplinare in mano al procuratore generale della Cassazione e al ministro della Giustizia anche per i giudici, l’” alta” sentenza disciplinare si risolva nella mera, asettica constatazione della formale corrispondenza della condotta dell’incolpato al precetto sanzionatorio, senza il retroterra di consapevolezze che è invece indispensabile per sentenziare in questa materia e per rendere il giudice disciplinare scevro dai condizionamenti culturali e ideologici di chi promuove l’accusa. Almeno su queste due punti, sarebbe lecito attendersi un’apertura da parte della premier allorquando si confronterà con i vertici dell’Anm dopo lo sciopero. Certo dipenderà dalle percentuali di adesione, da un gioco di numeri, anche se è bene ricordare che il poeta Giovenale considerava con sdegno il gioco dei dadi: «quando mai fascino uguale vi fu nel gioco? Nelle bische non si va più con una borsa, come posta ci si gioca la cassaforte» ossia tutto.