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«C' è accordo politico con il Pd su Conte per provare a formare un governo di lungo termine». Dopo pochi minuti di colloquio col Capo dello Stato, Luigi Di Maio arriva in sala stampa e scandisce le parole che dovrebbero porre fine alla crisi di governo.
La nuova maggioranza tra Movimento 5 Stelle e dem è ormai a un passo. E non sarà un esecutivo di scopo ma un patto «politico» di legislatura, assicura il capo grillino. La conferma del presidente del consiglio uscente, «grande interprete di questo “nuovo umanesimo”», rassicura i pentastellati e li fa «sentire garantiti» sui punti programmatici sottoposti agli elettori lo scorso anno.
Di più, «il nostro programma è sempre lo stesso», spiega Di Maio, che entra al Quirinale attraversando il cortile per evitare di incrociare sotto i portici la delegazione leghista in uscita. «Abbiamo iniziato un lavoro e vogliamo portarlo a termine. Non scapperemo, noi», sono le parole che il probabile ex vice premier consegna ai cronisti, rispondendo alle accuse di poltronismo pronunciate poche istanti prima da Matteo Salvini.
«Abbiamo preso degli impegni con gli italiani e costi quel che costi, questi impegni vogliamo mantenerli». Il prezzo da pagare è il sospetto del trasformismo finalizzato al mero mantenimento del potere, alimentato dall’ex alleato e dai malpancisti interni al Movimento. Ma per il numero uno M5S, che non rinnega l’avventura salviniana, la responsabilità del cambio di governo è da attribuire a chi ha tenuto «sessanta milioni di italiani nell’incertezza assoluta» in pieno agosto. «Una crisi inaspettata provocata da una forza politica che ha staccato la spina al governo di Giuseppe Conte».
E nel tentativo di zittire le voci critiche, il capo politico rispolvera la vecchia retorica da campagna elettorale del partito post ideologico, liquido, né di destra e né di sinistra che tanta fortuna portò a Beppe Grillo nel 2013. «Siamo convinti che non esistono soluzioni di destra o di sinistra, ma semplicemente soluzioni», aggiunge, provando a fornire qualche argomento valido agli attivisti smarriti.
Ma dal 2013 a oggi è trascorsa un’era politica. I cittadini al potere si sono trasformati in politici di professione e imparato l’arte del compromesso, delle riunioni a porte chiuse e delle telefonate riservate. In una di queste è stata comunicata a Di Maio l’ultima offerta del Carroccio ai 5Stelle per riallacciare i rapporti: la poltrona di Palazzo Chigi al leader pentastellato.
«Vorrei comunicare all’opinione pubblica una cosa: la Lega mi ha informato in questi giorni di voler proporre me come presidente del Consiglio», racconta. «E mi ha informato di averlo comunicato anche a livello istituzionale. Li ringrazio, con sincerità. Ma a me interessa il meglio per il Paese e non il meglio per me stesso».
Il passaggio non serve solo a mettere in difficoltà l’ex socio di governo, è indispensabile per mettere a tacere le polemiche sull’irremovibilità del capo politica a lasciare l’incarico di vice premier nel nascituro esecutivo. Di Maio ricorda di aver già fatto un passo di lato, dopo le scorse politiche, nonostante fosse il candidato premier del suo partito pur di consentire il varo del “governo del cambiamento”.
Il problema non sono i posti, rassicura l’ancora ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico, «se nelle prossime ore il presidente della Repubblica affidasse l’incarico al presidente del Consiglio Giuseppe Conte chiederò che si parta dal programma e solo dopo si potrà decidere chi sarà chiamato a decidere le politiche concordate».
E qui, però, sorge l’altro tema che in queste ore tiene banco in caso cinquestelle: la convocazione del voto su Rousseau per ratificare l’accordo. Molti parlamentari contestano la scelta dei vertici che potrebbe mettere a repentaglio la tenuta dell’alleanza e la credibilità politica del M5S.
«Di Maio ritiri il voto su Rousseau. Ieri, durante l'assemblea dei parlamentari, non abbiamo preso nessuna decisione in tal senso. Anzi, sono emersi molti pareri negativi», dichiara pubblicamente la deputata Flora Frate.
«Vincolare il Conte bis all'esito di un voto su una piattaforma gestita da una società privata, senza alcuna garanzia di trasparenza, è scelta assurda». Assurda o no, è stato il Movimento stesso a decidere di esternalizzare il “servizio democrazia” alla società di Davide Casaleggio e toccherà al gruppo dirigente valutare se riformare o meno i meccanismi decisionali.
Fino ad allora toccherà passare dalla piattaforma online per le decisioni importanti. Sempre che Sergio Mattarella non perda la pazienza.