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«Infondatezza della ipotesi accusatoria», perché «non è configurabile il delitto di peculato nel caso in cui non sia fornita giustificazione in ordine al contributo erogato per l’esercizio delle funzioni di natura pubblicistica» : «L’illiceità della spesa» non può essere fatta derivare «da tale mancanza», ma occorre comunque «piena prova dell’appropriazione e dell’offensività della condotta, quanto meno in termini di alterazione del buon andamento della pubblica amministrazione». Sono le durissime motivazioni con cui la Cassazione spiega perchè, il 9 aprile scorso, decise di assolvere «perché il fatto non sussiste» l’ex sindaco di Roma Ignazio Marino, imputato per peculato e falso nel processo sulla rendicontazione degli scontrini di alcune cene di rappresentanza pagate con la carta di credito del Campidoglio.
Immediato il commento del diretto interessato che dagli Stati Uniti - dove è tornato al suo lavoro di chirurgo - posta un lungo intervento su facebook: «Il caso è chiuso - ha scritto l’ex sindaco - Ciò che rimane aperto sono le motivazioni che hanno portato tutti i Consiglieri del Partito Democratico e parte dei Consiglieri di Centrodestra - sottolinea- a recarsi da un Notaio per interrompere il cambiamento che si stava realizzando. Queste sono le uniche motivazioni che ancora oggi non sono state depositate».
Per quel che riguarda la sentenza, la Suprema Corte ha accolto il ricorso presentato da Marino contro la sentenza, emessa in appello l’ 11 gennaio 2018, che lo aveva condannato a due anni. L’ex sindaco era stato invece assolto in primo grado. Nella sentenza depositata ieri, la sesta sezione penale del “Palazzaccio” evidenzia che i «giustificativi delle spese erano stati presentati» ma che la Corte d’appello, «con una motivazione del tutto inadeguata» li aveva ritenuti «falsi».
I giudici di piazza Cavour osservano che, «ad eccezione di due soli di quei documenti per i quali era stata accertata una difformità nella indicazione della qualifica commensale del sindaco, casi nei quali l’imputato aveva convincentemente spiegato essersi trattato di probabili imprecisioni commesse dai suoi collaboratori nella compilazione di documenti, peraltro avvenuta a distanza di tempo dai relativi eventi», in «tutti» i giustificativi di spesa «vi erano annotazioni che potevano collegare ciascuno di quegli incontri conviviali ad altrettanti eventi, svoltisi nella stessa giornata, spesso poco prima delle ore serali, ai quali Marino aveva partecipato nella veste di sindaco, dunque per finalità certamente istituzionali».
Con un «riscontro soggettivo», inoltre, «era stato possibile appurare che Marino aveva effettivamente cenato con rappresentanti di altre istituzioni per discutere di questioni attinenti alla città di Roma», rileva la Cassazione, affermando che si tratta di «situazioni nelle quali vi era più di una mera presunzione in ordine alla natura pubblicistica di quelle spese, rientranti nella categoria delle legittime “spese di rappresentanza” in quanto destinate alla realizzazione di un fine istituzionale dell’ente che le sostiene, per essere strumentali a soddisfare la funzione rappresentativa esterna dell’ente pubblico».