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Stefano Cucchi morì per le botte in caserma la notte dell’arresto. Così ha deciso la prima Corte d’Assise di Roma, che ieri ha condannato a 12 anni, per omicidio preterintenzionale, i carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D'Alessandro, ritenuti dalla procura gli autori del pestaggio ai danni del geometra romano 31enne, arrestato per droga nell'ottobre 2009 e picchiato con così tanta violenza da morire nel giro di una settimana.
Mentre nulla, secondo i giudici, ha avuto a che fare con quel sopruso l'imputato- teste Francesco Tedesco, assolto dall’accusa di omicidio ma condannato a due anni e sei mesi per la compilazione del falso verbale di arresto. Stessa accusa per la quale la Corte ha inflitto 3 anni e otto mesi al maresciallo Roberto Mandolini, all’epoca dei fatti comandante interinale della Stazione dei carabinieri Roma Appia, dove la notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009 Cucchi fu portato dopo il suo arresto.
I giudici hanno poi riqualificato in falsa testimonianza l’originario reato di calunnia ai danni dei tre agenti di polizia penitenziaria, accusati ingiustamente e poi assolti del pestaggio di Cucchi, assolvendo Tedesco, Mandolini e Vincenzo Nicolardi perché il fatto non costituisce reato. Per la corte d’assise, infatti, i tre militari furono sentiti senza l’assistenza di un difensore e, dunque, senza le garanzie di legge.
Per il sostituto procuratore Giovanni Musarò, attorno alla morte di Cucchi sarebbe stata realizzata un'opera di depistaggio che ha «toccato picchi da film dell’orrore», con l’unico scopo di far ricadere la responsabilità di tutto su alcuni agenti della Polizia penitenziaria, poi assolti in maniera definitiva. Il 3 ottobre scorso, il pm aveva chiesto una condanna a 18 anni per Di Bernardo e D'Alessandro per l’omicidio, chiedendo, per tale reato, l’assoluzione di Tedesco, ieri a Rebibbia per la lettura della sentenza.
Per Musarò, sarebbe «impossibile» negare il nesso di causalità tra il pestaggio e la morte. «I periti aveva spiegato - parlano di multifattorialità a produrre la morte di Cucchi. E tutti i fattori hanno un unico denominatore: sono connessi al pestaggio, sono connessi al trauma subito da Cucchi».
Ma nelle stesse ore, mentre ancora deve partire il processo sul depistaggio, che vede alla sbarra otto militari, si è chiuso anche un altro capitolo della vicenda, con la sentenza del terzo processo d’appello nei confronti dei cinque medici dell’ospedale Sandro Pertini, dove Stefano, che ormai pesava solo 37 chili, morì il 22 ottobre 2009.
E si è chiuso con una sentenza di assoluzione e una di “non doversi procedere”, perché il reato di omicidio colposo è ormai prescritto. Ma la seconda corte d’Assise di appello ha comunque fatto una distinzione essenziale tra la posizione dei medici: non è colpevole Stefania Corbi, assolta per non aver commesso il fatto, mentre per gli altri imputati i giudici hanno recepito le conclusioni del sostituto pg Mario Remus, che lo scorso 6 maggio aveva sollecitato la prescrizione nei confronti del primario Aldo Fierro e dei medici Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo, che seguirono a vario titolo Stefano.
Una sentenza, dunque, che stabilisce comunque un giudizio di merito sull’operato dei quattro sanitari. I medici finirono a processo, inizialmente, con l'accusa di abbandono d'incapace, assieme a tre infermieri e tre agenti della Polizia penitenziaria. Condannati nel giugno 2013 per il reato di omicidio colposo, furono poi assolti in appello.
E da lì, due annullamenti con rinvio della Cassazione, fino alla sentenza di ieri. Nella sua requisitoria, il pg fu lapidario: «questo processo dovrà concludersi con la prescrizione del reato - disse -, ma è una sconfitta della giustizia. Per salvare Stefano Cucchi sarebbe bastato un tocco di umanità, un gesto, per convincerlo a bere e a mangiare».
Una vicenda contorta e intricata, quella di Cucchi, dalla quale sono scaturiti già sette processi e riaperta grazie alla tenacia della famiglia del giovane, in particolare della sorella Ilaria, assistita dall’avvocato Fabio Anselmo. Dopo la morte del geometra, la procura di Roma aveva aperto un’inchiesta mettendo sotto accusa i tre agenti penitenziari che accompagnarono il ragazzo il giorno dopo il suo arresto in tribunale per la convalida. Ma si trattava di un depistaggio, svelato da Musarò, che ha ribadito il nesso tra le botte e la morte, inizialmente attribuita ad un attacco di epilessia. La svolta ad aprile scorso, quando Tedesco ha raccontato in aula le fasi del pestaggio. Facendo i nomi degli autori: Di Bernardo e D’Alessandro.