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C’è una duplice perplessità, in Sabino Cassese, di fronte alla decisione di revocare l’incarico a Siri annunciata da Conte. Il giudice emerito della Corte costituzionale non usa l’espressione “ipocrisia”, ma descrive con precisione i contorni di una vicenda esemplare per le sue pesanti contraddizioni. Innanzitutto il mistero della «indagine» condotta dal premier nei confronti del sottosegretario: visto che «le proposte di emendamento erano note ai ministri M5s da mesi», perché, si chiede Cassese, la verifica su Siri «ha inizio tanto tempo dopo?». Distonia che rimanda all’ «uso delle indagini contro l’avversario politico» ormai irrinunciabile, osserva l’editorialista del Corriere e del Foglio citando Pignatone.
Con la sua proposta di revoca dell’incarico a Siri, Conte non compromette quel principio di separazione dei poteri già tradito da altri in precedenti casi giudiziari?
La questione sta in altri termini. Esaminiamo i fatti. Il presidente del Consiglio ha incontrato il 29 aprile il sottosegretario senatore Siri. Sulla base dei dati da lui raccolti nel corso della conversazione, il 2 maggio ha dichiarato di aver assunto la decisione di sottoporre al Consiglio dei ministri la revoca della nomina del senatore sottosegretario. Ha precisato che la procedura giudiziaria è separata da quella “politica” da lui seguita.
Lo ha detto ma non è sembrato convincente.
Il presidente del Consiglio non ha fatto menzione alla dazione di denaro e non poteva farlo, sia perché gli mancavano elementi, sia perché altrimenti avrebbe dovuto ammettere il legame tra la procedura “politica” e quella giudiziaria. Sappiamo tuttavia, perché almeno la prima pagina è reperibile on line, che il “decreto di perquisizione personale, locale e su sistemi informativi e contestuale comunicazione ex articolo 369 cpp”, ossia la “informazione alla persona sottoposta alle indagini”, è del settembre 2018 e che si riferisce alla proposta di emendamenti a provvedimenti normativi: decreti interministeriali, legge mille proroghe, legge di Bilancio, legge di semplificazione. Questi sono stati proposti o adottati negli ultimi quattro mesi dell’anno scorso e sono tutti attinenti alle responsabilità di tre ministeri, Infrastrutture e trasporti, Sviluppo economico e Ambiente, a capo dei quali vi sono appartenenti al M5S. La successione temporale dei fatti consente di concludere che le proposte di emendamento erano note al governo da mesi. Perché l’indagine amministrativa, separata da quella giudiziaria, ha inizio tanto tempo dopo?
Conte cita la scarsa astrattezza della norma proposta da Siri. Assicura di non ergersi a giudice, però forse suggerisce un’ipotesi d’accusa ai pm.
Anche in questo caso mi pare che il problema sia un altro: se quanto accertato, cioè la proposta di emendamenti avanzata, sia tale da giustificare la decisione di portare la revoca al Consiglio dei ministri. Cioè se essa sia una misura proporzionata al comportamento in violazione del rapporto di fiducia: aver presentato e, si suppone, caldeggiato emendamenti, peraltro non accolti, non l’aver accettato denaro, che è un elemento che non conosciamo e che il presidente del Consiglio, come ho detto prima, non poteva contestare.
Ed è proporzionata?
Per rispondere a questa domanda, bisogna esaminare i precedenti, che sono quattro. Il primo, del 1993, riguarda un sottosegretario al quale era stato richiesto, prima del giuramento, di dichiarare se era sottoposto a procedure penali e che aveva dichiarato di non esserlo, mentre sapeva di essere stato rinviato a giudizio. Il secondo precedente, del 1998, riguarda un sottosegretario per il quale la commissione parlamentare Antimafia aveva inviato al governo atti che lo riguardavano, probabilmente come imputato. Il sottosegretario non si era dimesso. Il governo l’aveva revocato. Il terzo precedente, del 1999, riguarda un sottosegretario sottoposto a misura detentiva. L’ultimo precedente, del 2002, riguarda un sottosegretario che aveva assunto pubblicamente posizioni in aperto contrasto con le decisioni del governo. Quindi, tutti i precedenti riguardano comportamenti con una duplice caratteristica: attenevano a fatti accertati; riguardavano fatti estranei alla funzione governativa.
Ecco: qui invece i fatti di rilievo penale non sono accertati. L’unico dato certo, la proposta di emendamento, non era stato ritenuto meritevole di contromisure. Alla fine è giusto o no che Siri venga rimosso?
Le domande che il caso fa sorgere sono le seguenti. Come si può distinguere procedimento giudiziario, retto dal diritto, e procedimento politico, quando, proprio in un caso come questo dovrebbero comunque essere le ragioni del diritto a prevalere, specialmente perché sono in ballo diritti individuali?
Diritti trascurati senza esitazione.
In secondo luogo, il senatore Siri è ritenuto dal presidente del Consiglio colpevole di aver proposto ad altri membri del governo emendamenti a favore di un privato. I fatti si sono svolti all’interno del governo, parecchi mesi fa. Gli emendamenti non sono stati accolti. Gli altri membri del governo, destinatari degli emendamenti, sapevano. Se il comportamento è ora ritenuto tanto grave, perché non si è proceduto subito? Non c’è il pericolo che dall’attuale procedura risulti una omissione di doveri di ufficio di altri membri del governo?
Risvolto paradossale.
In terzo luogo, considerato il diverso peso delle responsabilità imputate al sottosegretario Siri rispetto ai casi precedenti, non sarebbe stato necessario provvedere a una contestazione scritta degli addebiti, come si fa con i dipendenti pubblici?
Ma quell’emendamento poco astratto è un fatto così grave?
Il sottosegretario ha così risposto al “Corriere della Sera” il 19 aprile scorso alla domanda “E l’emendamento incriminato?”: “Me ne chiedono 800 al giorno, non sto a guardarli tutti, li passo agli uffici”. Sembra l’ammissione della natura corporativa del populismo italiano. In conclusione, una procedura così sommaria con una sanzione tanto grave, la revoca dalla carica e la pubblicità data alla decisione di avviare la revoca, finisce per eliminare gli elementi di garanzia che sono costruiti nel sistema giuridico. C’è una sanzione senza processo. Come ha giustamente osservato il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, un magistrato illustre e unanimemente apprezzato per la sua serietà, il suo equilibrio e la sua indipendenza, al “Corriere della Sera” di ieri, in Italia “non si rinunzia a usare contro l’avversario politico il risultato delle indagini, a prescindere dal loro esito”. E qui non si tratta neppure di “risultati delle indagini”, che non sono ancora concluse.