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PIERCAMILLO DAVIGO EX MAGISTRATO
«Uno che diceva che manco le sentenze di primo grado dovevano essere impugnate non si arrende manco a quella di terzo grado. Ormai il dottor Davigo ha superato in garantismo il dottor Corrado Carnevale». Il commento sferzante è di Fabio Repici, avvocato del procuratore aggiunto di Catania Sebastiano Ardita, parte civile nel processo all’ex pm di Mani Pulite Piercamillo Davigo. Il riferimento è al ricorso straordinario in Cassazione contro la sentenza della Suprema Corte, condannato in via definitiva per rivelazione di segreto in concorso con il pm Paolo Storari, assolto invece da tutte le accuse, nella vicenda della diffusione dei verbali di Piero Amara sulla Loggia Ungheria.
Una parte della condanna inflitta dai giudici di merito - relativa alla rivelazione a terzi - è stata rinviata in Corte d’Appello per un nuovo giudizio. Ma per il nucleo fondamentale della vicenda il processo all’ex magistrato è ormai chiuso. Davigo non si rassegna però alla sentenza dello scorso dicembre, che a suo dire deve essere corretta «per evidente errore di fatto» e annullata proprio nella parte che stabilisce in via definitiva la sua responsabilità. La richiesta di un ricorso straordinario di fatto una sorta di quarto grado di giudizio - porta la firma degli avvocati Franco Coppi e Davide Steccanella, secondo i quali la sentenza la «scelta consapevole» dell’ex magistrato «di non suggerire a Storari di seguire la procedura ordinaria» e rivolgersi al procuratore generale di Milano non era «affatto dovuta» ad una ragione «marcatamente arbitraria» e «gratuita», come scritto da Piazza Cavour, ma «al fatto ben diverso che il procuratore generale avrebbe inviato», poi, come da procedura, «la segnalazione di Storari proprio al diretto interessato Ardita», all’epoca consigliere del Csm e tirato in ballo in maniera falsa da Amara quale componente della fantomatica loggia.
Per Davigo, dunque, doveva valere, secondo la difesa, la «scriminante putativa dell’adempimento del dovere». Per i giudici della Cassazione, invece, l’ex pm era consapevole «del corretto percorso istituzionale da suggerire a Storari per superare la situazione di stallo che questi ebbe a rappresentargli prima di procedere alla rivelazione del segreto».
E date le cautele imposte dalla presenza di notizie segrete e il non complicato regolamento del Consiglio superiore della magistratura sulla gestione di materiale simile, i giudici di merito hanno agito «correttamente» nel condannarlo per rivelazione, dato anche lo «spessore professionale del ricorrente e delle sue specifiche competenze acquisite nel tempo anche sul piano ordinamentale».
I giudici aveva smontato il ricorso della difesa di Davigo sottolineando che fu certamente Storari a chiedere l’incontro con Davigo. Ma pur essendo stata una scelta distonica quella di contattare informalmente l’ex pm per veicolare al Csm il suo problema, la sua scelta è stata «decisamente supportata dal comportamento rassicurante sotto tale profilo tenuto» da Davigo, «dall’alto della posizione all’epoca rivestita, oltre che in ragione di una incontroversa autorevolezza acquisita nel tempo grazie al suo percorso professionale».
La via istituzionale da seguire «non presentava margini di incertezza forieri di dubbi applicativi», mentre le modalità scelte risultano «poco compatibili con la serietà e delicatezza dei temi in gioco». E che quella standard fosse «senza incertezza di sorta, sul piano ordinamentale, la corretta via istituzionale da seguire, è aspetto» che Davigo «ha mostrato non solo di conoscere, ma anche di condividere, affermando, nel corso del suo esame dibattimentale, che tale modalità di azione non venne in concreto privilegiata a causa della ridotta affidabilità della persona che all’epoca temporaneamente rappresentava l’Ufficio della procura generale milanese». Un dato mai negato dall’ex pm e che assume «una assorbente decisività nell’ottica della confermata affermazione di responsabilità, anche sotto il versante soggettivo».
Anche a voler ritenere che le dichiarazioni di Amara potessero investire il Csm, «una tale prospettiva, infatti, non consentiva e non consente comunque di ritenere le esigenze sottese al segreto investigativo, apposto sui relativi verbali di interrogatorio, recessive rispetto a quelle di acquisizione “consiliare” dei relativi dati conoscitivi, per l’evidente erroneità della ricostruzione della pertinente normativa di riferimento».
La norma primaria, infatti, impone il segreto e pur esistendo circolari - fonti secondarie - che consentono di accedere ad atti coperti dal segreto investigativo, l’Ufficio giudiziario procedente può sempre rifiutarne l’ostensione. «Il che, ancora una volta, rendeva manifestamente inconferente la soluzione privilegiata dai due concorrenti, vieppiù se filtrata alla luce della imprescindibile comparazione tra la delicatezza della materia gestita, per la rilevante connotazione pubblicistica delle ragioni sottese all’apposizione del segreto investigativo, e la chiarezza del percorso istituzionale predisposto dall’ordinamento» .