La psicoterapeuta Nadia Bolognini avrebbe commesso il reato di frode processuale per aver «dolosamente ignorato» che una ragazzina poco più che 13enne era «consenziente», in quanto «profondamente innamorata», nel suo rapporto - di natura sessuale - con un parente 27enne, nonostante per la legge l’età del consenso sia fissata a 14 anni. È quanto si legge nel capo d’imputazione numero 70, che rappresenta solo una delle accuse a carico di Bolognini, di fatto alla sbarra per aver tentato di frodare un Tribunale «in qualità di incaricata di pubblico servizio in ragione delle effettive funzioni di psicoterapeuta svolte su incarico del servizio sociale integrato Val d’Enza, all’interno della pubblica struttura denominata “la Cura” di Bibbiano ed in sostituzione dell’analogo servizio fornito dalla pubblica Asl». Secondo la pm Valentina Salvi, Bolognini, al fine di «sviare le indagini relative» al procedimento penale a carico di J. B., «durante le settimanali sedute di psicoterapia effettuate» con una ragazzina coinvolta nel caso “Angeli e Demoni” «alterava lo stato psicologico ed emotivo» della minore «sui fatti oggetto dei predetti procedimenti penali e rispetto ai presunti autori degli stessi». In particolare, «ignorando dolosamente che la minore le aveva dichiarato di essere consenziente e profondamente innamorata» di B., tanto che «nel racconto» la stessa «affermava di aver chiesto lei a B. di avere un rapporto sessuale». Questo significa, dunque, che era stata la bambina a parlare del rapporto con il 26enne e a chiarirne la natura sessuale. E secondo il Dsm-5 (il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Fifth Edition), «il disturbo pedofilo è caratterizzato da ricorrenti, intense fantasie, impulsi o comportamenti sessualmente eccitanti che implicano un’attività sessuale con bambini in età prepuberale (generalmente minori di 13 anni); sulla base di criteri clinici, viene diagnosticato solo quando il paziente ha un’età maggiore o uguale a 16 anni e 5 anni in più rispetto al bambino che è il bersaglio delle fantasie o dei comportamenti». Insomma, una definizione corretta quella di pedofilo nel caso descritto. Secondo l’accusa, però, ciò non sarebbe stato corretto: Bolognini - si legge nel capo d’imputazione - «ribadiva sistematicamente alla minore, con convinzione e con l’autorevolezza derivante dal proprio ruolo, che B. era un subdolo pedofilo e che adescava minorenni, approfittandosi di loro».

La storia è complessa e delicata. Ma dimostra come sin dall’ordinanza di custodia cautelare ci fossero degli elementi per coltivare il dubbio sulle accuse mosse nel mediaticissimo “caso Bibbiano”. E nelle carte che tutti dichiarano di aver imparato a memoria, dunque, c’era anche questo spunto: l’idea di un amore possibile tra una 13enne e un 26enne, non consentito dalla legge italiana. Tant’è che la stessa pm Salvi, nel procedimento parallelo, aveva chiesto e ottenuto il rinvio a giudizio di J. B., processo poi finito nel nulla per «l’irreperibilità dell’imputato». Casi come questo sono regolati dall’articolo 609 quater del codice penale, in base al quale se gli atti sessuali sono compiuti con un minorenne che non ha ancora compiuto 14 anni, il responsabile è punito con la reclusione da 6 a 12 anni. E se è vero che il reato non sussiste se vi è una relazione amorosa consensuale tra le parti, questo vale solo se la differenza di età tra l’autore e la vittima non supera i 3 anni. Nulla del genere nel caso di questa minore, che avrebbe invece avviato una relazione con uno “zio” trasferitosi da Roma in Emilia, a casa della ragazzina, per cercare lavoro.

«Allora, guarda, non puoi, tu sei piccolina, a quell’età non c’è volere o non volere, hai un’età in cui una ragazzina non è in grado di capire, mentre un uomo adulto sì, perché ventisei anni è un uomo adulto e tu sei una ragazzina», aveva spiegato Bolognini alla bambina. Da qui la consapevolezza, per la minore, che si trattava di un atteggiamento “da pedofilo” e il timore, riferito dall’educatrice, che potesse accadere qualcosa allo “zio” - che era anche tossicodipendente -, così come che i genitori venissero a conoscenza della natura del loro rapporto. Nel parlare con l’educatrice della comunità di accoglienza della “relazione” con quest’uomo, la bambina aveva chiarito che «io so che per la mia età ha fatto una cosa da pedofilo - parole che la donna aveva appuntato in una relazione a molto prima della presa in carico da parte di Bolognini, relazione confermata poi in Tribunale in qualità di teste -, ma per me è normale ed era una cosa normale. Quando sto male ho provato a scrivere ma non riesco e se mi taglio mi sembra che dopo sto meglio». In comunità, infatti, la ragazza aveva iniziato a compiere gesti di autolesionismo, con tagli inizialmente leggeri, poi più profondi, fino a formare l’inequivocabile scritta “fuck” sull’avambraccio. Segni, aveva spiegato la ragazzina - come si legge anche in una relazione della comunità protetta - che servivano per gestire il dolore. Ma le pulsioni autolesionistiche erano diminuite, fino a scomparire, dopo che la ragazzina ha iniziato la terapia con Bolognini.

«Mi manca molto lo zio - queste le frasi riferite dalla giovane alle educatrici e riportate in quel documento -, non so che fine ha fatto, ho paura che si è ucciso, non so quando lo potrò sentire, diranno che sono scappata con lui, nessuno sa che sono in comunità». Una paura che potrebbe spiegare anche quanto detto dalla bambina in ospedale, dove a seguito del sospetto abuso era stata portata per una visita medica: nel referto della prima visita ospedaliera la ragazzina aveva negato che il rapporto sessuale fosse intervenuto con lo zio e aveva preferito riferire che il rapporto si era consumato con un «quasi coetaneo».