È il caso «politico», quello che, secondo l’accusa, serviva a realizzare quel progetto a sfondo Lgbt che avrebbe trasformato un affido temporaneo in un’adozione per una coppia omosessuale. Ma a renderlo «politico», secondo l’avvocato Nicola Canestrini, sarebbe stata proprio la pm, attraverso accuse smentite dai fatti, dai testi e perfino dalle sue stesse parole. «Oggi più che mai - ha detto -, in aula rimane una domanda sospesa: chi pagherà il prezzo di questa gigantesca balla giudiziaria?».

Sono state ancora una volta parole forti quelle usate dal difensore di Francesco Monopoli, assistente sociale tra gli imputati del processo sui presunti affidi illeciti in Val d’Enza, per cui la pm Valentina Salvi ha chiesto una condanna a 11 anni e mezzo. Parole, le sue, documentate però punto per punto dagli atti del processo, dalle relazioni e da tutto ciò che, secondo le difese, sarebbe stato ignorato dalla pm, la cui requisitoria - per 73 anni complessivi di carcere - si sarebbe fermata al momento delle indagini, fatte di contestazioni «cervellotiche» e smentite dagli stessi capi d’imputazione, ignorando completamente quanto emerso durante il processo. Basti pensare che le relazioni ritenute false dall’accusa non riportano - stando alla lettura delle stesse - i contenuti contestati dalla procura nei capi d’imputazione.

Nella giornata di oggi Canestrini ha illustrato il caso di K., la bambina che aveva chiamato i carabinieri perché «abbandonata» a casa dai genitori e poi affidata ad una coppia di donne. Un caso noto ai servizi da anni, che Monopoli, qualche mese prima di quell’evento, aveva perfino chiuso positivamente, ritenendo recuperato il nucleo familiare. Un fatto che contrasta nettamente con il presunto piano criminale di trasformare K. in una bandiera politica, tanto da essere definita dalla pm «il capolavoro professionale di Monopoli».

«Devo iniziare ricordando ciò che il pubblico ministero ha affermato nella sua requisitoria il 28 marzo 2025», ha esordito Canestrini, riferendosi a quando Salvi ha detto che K. «era rimasta sola per un paio di ore». L’incipit, ha sottolineato Canestrini, «promette male. Perché la solitudine di K. che non era di un paio d’ore, perché quello fu l’elemento che fece scattare l’intervento dei servizi chiamati dai carabinieri». Questo processo, aveva detto la pm, «dovrà spiegare per quali ragioni è stata allontanata una bambina di 9 anni dal nucleo familiare, sradicandola completamente sia dai propri genitori che da qualunque altro tipo di legame». Salvi avrebbe tentato di ridurre i motivi dell’allontanamento «solo alla separazione conflittuale, violenta, dei genitori di K. - ha sottolineato Canestrini -. Anche questo è assurdo. Ma concordiamo in questa piccola parte con quanto chiesto dal pubblico ministero, dovrà spiegare, questo processo, per quali ragioni. E io dico che abbiamo sentito da decine di testimoni le ragioni per le quali la bambina è stata allontanata». Il dato ironico è che la stessa pm, poco più avanti nella sua requisitoria, ha confermato che fosse evidente il fatto che «questo nucleo familiare, in quel momento, necessitasse di un intervento, di un sostegno, di un monitoraggio, forse anche di un allontanamento». E allora, si è chiesto Canestrini, «perché l’allontanamento viene messo alla sbarra? Il brocardo “in dubio pro reo” ci consente di dire che possiamo chiuderla qui». Sarebbe stata la procura, secondo il difensore, a trasformare la bambina «in un simbolo politico, negando, non si conosce in base a quali elementi, che fin dall’origine l’affido fosse non temporaneo e che avrebbe dovuto diventare definitivo. Ma come fa ad affermarlo?».

«Lacune incredibili e chiacchiere da bar: ecco cos’è Bibbiano»

A dimostrare la situazione problematica del nucleo familiare sono diversi elementi. Come il diario di K., sequestrato dai carabinieri il giorno del blitz, dove, tra le altre frasi, ce n’è una particolarmente significativa: «Ho paura che visto che sto raccontando tutto quello che mi è successo dopo i miei genitori si vendichino uccidendomi con un coltello, soprattutto mio papà», scriveva K.. Una bambina che è rimasta solo più volte, ha detto Canestrini, tanto che una vicina riferisce di averla sentite «urlare nella notte dal terrazzo che era sola a casa e che qualcuno aveva portato via la mamma, chiedendo quindi di chiamare le forze dell’ordine». Un nucleo familiare in cui non mancavano liti, violenze, accuse reciproche, denunce e ripetuti contatti col servizio. Tutto confermato e poi negato dagli stessi genitori, fino anche a nascondere, nel caso del padre, i precedenti penali, tra i quali una rapina con percosse.

«Secondo la pm l’unico obiettivo era l’allontanamento - ha evidenziato Canestrini -. Ma il dottor Monopoli, nel 2015, chiede la chiusura del caso perché, dice, si sono stabilizzati i rapporti fra i genitori. La relazione è del 13 maggio 2015». La bambina chiama i carabinieri il 7 giugno 2016, 10 mesi dopo la decisione di Monopoli, «che evidentemente si è sbagliato, perché ha dato troppa fiducia a questi genitori». E quando la bambina chiama i carabinieri dicendo di essere lasciata sola, gli stessi militari «hanno un certo timore ad entrare in questa casa - ha evidenziato Canestrini -. Non ho mai visto dei carabinieri che non entrano in casa, si fermano sulla porta, perché non avevano personale femminile. Di quel nucleo familiare non si fidavano neanche loro, che hanno agito in autotutela. Ed ecco l’errore del dottor Monopoli, non aver agito lui in autotutela». Uno dei carabinieri intervenuti, tra l’altro, era stato proprio colui che aveva arrestato il padre della bambina per rapina. Insomma, conoscevano «la pericolosità del padre», messa nero su bianco dalla sentenza della Corte d’Appello di Bologna, che parla di «personalità incline alla violenza, spregiudicata e prevaricatrice difficilmente in grado di adeguarsi alla regola di civile convivenza e di astenersi in futuro da tale scelta». Circostanza che in qualche modo, ha sottolineato il legale, «era sfuggita agli investigatori di questo caso».

È stata la stessa bambina, nel suo diario, a raccontare che spesso «ero da sola in casa e non sapevo mai che cosa facessero i miei genitori», a «mangiare schifezze» e a guardare sul computer «cose proibite». «Mi sentivo affamata, trascurata, abbandonata e mi sentivo male», aveva scritto la bambina. Bambina che era rinata con la terapia di Nadia Bolognini, come testimoniato dal ctu Giuseppe Bresciani, cosa che contrasta con l’ipotesi di lesioni: «Io non ho visto un’involuzione, ho visto un’evoluzione e quindi ritengo che i processi maturati che avvengono e l’accompagnamento all’interno di un sostegno psicologico di una psicoterapia abbia contribuito in qualche modo a renderla più sicura».

Anche il padre aveva accusato la moglie di lasciare spesso la figlia da sola, salvo poi cambiare versione più volte. «Il servizio questa cosa la deve valutare o non la deve valutare?», si è chiesto Canestrini. «Il comportamento che hanno tenuto su questa sedia indurrebbe chiunque a dubitare del fatto che fossero dei genitori con cui questa bambina poteva tranquillamente crescere». Una bambina che si ritrovava a mangiare da sola al ristorante anche due o tre volte a settimana, perché a casa nessuno se ne preoccupava.

«Quello che alla pubblica accusa sarebbe piaciuto fosse stato descritto in udienza non coincide con quello che è successo - ha commentato Canestrini -. Tutto si concilia molto male con la tesi accusatoria», anche in relazione ai contatti con i genitori, almeno uno al mese, e ai presunti regali negati. «Quello dei regali è un argomento perfetto per l’opinione pubblica - ha quindi aggiunto -. Chi non inorridirebbe, soprattutto se non sa niente del fatto che forse i regali inopportuni a una figlia non vanno dati, come un completo intimo, se so che c’è un certo controllo da parte degli assistenti sociali e degli educatori sul messaggio che i regali possono veicolare in un’ottica di prudenza, di prevenzione. Però, ovviamente non ci si poteva risparmiare di dire che i regali fossero sistematicamente sottratti, perché serve a sollecitare quel pathos, quell’emotività che fa bene a tante cose, ma certamente fa male all’accertamento processuale. E che fonda quella gogna mediatica di cui ho parlato più volte». Senza contare che dopo il blitz “Angeli e Demoni” la situazione familiare e della minore, stando ai nuovi servizi, è peggiorata. «Dopo l’allontanamento del demone - spiega Canestrini -, i servizi scrivono che si è rischiato che in più di un’occasione la minore fosse consegnata ai servizi. Consegnata».

Canestrini ha poi contestato uno per uno i capi d’imputazione. A Monopoli si contesta di aver attribuito tra virgolette delle frasi alla minore, presentandole come sue dichiarazioni letterali quando in realtà sarebbero frutto di elaborazioni. Ma per la difesa si tratta di un’accusa infondata: le frasi riportate sono coerenti con quanto la bambina ha dichiarato in sede di incidente probatorio, come evincibile dagli stessi atti. «Queste affermazioni corrispondono perfettamente a quanto riportato nella relazione contestata. Dove sarebbe il falso?», si è chiesto Canestrini.

L'accusa ha criticato anche l’espressione “cibo avariato lasciato sui mobili da diversi giorni”, presente nella relazione di Monopoli e relativa allo stato dell’abitazione di K. all’arrivo dei servizi sociali. Ma anche qui la difesa ha chiarito che i carabinieri, ascoltati il 29 gennaio 2024, hanno confermato il disordine in casa, piatti sporchi nel lavandino e resti di cibo, elementi compatibili con la definizione di “avariato”. E, ha ironizzato Canestrini, «se proprio volessimo discutere con un linguista, guardiamo la Treccani: “avariato” significa alterato, deteriorato, guasto. Esattamente ciò che è stato trovato».

Un altro punto riguarda una presunta falsa dichiarazione secondo cui il padre, contattato dalla figlia mentre era sola a casa, le avrebbe detto solo di chiamare i carabinieri senza intervenire. Ma la relazione oggetto di imputazione non riporta affatto tale passaggio, e anzi descrive un rapporto affettuoso: «La bambina racconta del buon rapporto che ha con il padre, dichiara di volergli molto bene e di giocare con lui». Un elemento, dice la difesa, che «contrasta apertamente con l’idea di chi voleva strumentalizzare il caso per interrompere i rapporti familiari».

Quanto allo stato di abbandono, l’accusa rimprovera agli assistenti sociali di non aver segnalato che il padre fosse a Parma per lavoro e ignaro che la figlia fosse sola. Ma la difesa ha ribattuto: «Il servizio ha semplicemente riportato la segnalazione ricevuta dai carabinieri. Non aveva modo né obbligo di ricostruire retroattivamente la logistica lavorativa del padre».

La testimonianza della vicina, indicata come baby-sitter e figura di riferimento per Katia, è un altro «capolavoro» dell’accusa, secondo il legale. In aula, infatti, la donna ha ammesso di essere andata solo una volta a casa loro. Eppure è proprio su di lei che l’accusa fonda la presunta inverosimiglianza dello stato di abbandono. «Sono davvero stupefatto – ha osservato l’avvocato – che la sua versione sia stata presa per oro colato, quando è lei stessa a ridimensionarla».

Un altro fronte dell’imputazione riguarda l’induzione in errore del dottor Bresciani, il neuropsichiatra che si occupò della bambina. Secondo l’accusa, il professionista sarebbe stato influenzato da Monopoli e dai colleghi. Ma la difesa ha ribattuto seccamente: «Bresciani non chiede cosa scrivere a Monopoli o a Bonaretti. Studia le carte, somministra test. Non c’è un solo elemento che provi l’esistenza di inganni. Fino a prova contraria, un testimone è attendibile. Non possiamo dire che era manipolato solo perché le sue conclusioni non piacciono all’accusa».