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Sei euro a testa. È quanto spetterebbe a ogni assistente sociale, in media, se il Tribunale di Reggio Emilia accogliesse la richiesta di risarcimento formulata dall’Ordine nazionale degli assistenti sociali nel processo sui presunti affidi illeciti in Val d’Enza, noto come “caso Bibbiano”. Una somma simbolica, ma che ha scatenato una protesta concreta: la “base” degli assistenti sociali si ribella, dichiarando di non condividere la scelta di costituirsi parte civile contro colleghi ancora sotto processo.
Presunti innocenti, accusati e trattati fin dall’inizio – denunciano – come colpevoli. «Sei euro da un collega non li vogliamo», si legge nel testo indirizzato all’Ordine nazionale e a quello dell’Emilia-Romagna. I firmatari si dissociano apertamente dalla linea seguita dall’avvocata incaricata di rappresentare l’Ordine in aula.
«Come iscritti all’albo e come assistenti sociali le parole del legale ci risuonano assurde e colpevolizzanti nei confronti di colleghi che sostengono da anni un processo lungo e complesso e che, ad oggi, sono ancora da considerarsi innocenti», si legge nella missiva. Il danno d’immagine alla professione, sostengono, non sarebbe stato causato dagli imputati, bensì dalle «false notizie emerse nelle prime fasi del processo e all’utilizzo di intercettazioni e atti di indagine pubblicati sui giornali, alcuni addirittura quando le indagini erano ancora in corso e non in possesso degli indagati».
Nel mirino, quindi, non solo la scelta processuale, ma anche la gestione comunicativa dell’intera vicenda. A pesare, secondo la lettera, è stata soprattutto «la mancanza di una narrazione realistica dei fatti, la scarsa informazione di quanto emerso in fase di dibattimento e la totale assenza di una visione alternativa da parte di organi competenti in merito (quale l’Ordine appunto). Riteniamo gravi e fuori luogo le parole pronunciate» dall’avvocato di parte civile «e pubblicate sui giornali e necessarie pertanto precisazioni da parte dell’Ordine, che tutelino veramente la professione e tutti gli iscritti».
La richiesta di risarcimento – sei euro simbolici per ciascun iscritto – è stata avanzata dall’avvocata Francesca Grusovin, secondo cui «al di là del lato economico, il danno di immagine non può neppure essere quantificato, è immenso». Per Grusovin, la vasta eco mediatica del caso non sarebbe dipesa da una strategia giudiziaria, ma dalla gravità dei fatti contestati: «La risonanza avuta sui media nazionali e locali non è colpa della volontà delle parti civili o della Procura – ha sottolineato –. È stata invece la gravità dei fatti contestati a causare la vasta eco che ha poi arrecato il grave danno agli assistenti sociali. A oggi la loro figura è stata compromessa e più volte identificata come ladri di bambini, rispetto a una funzione che è fondamentale poiché si interviene in situazioni di criticità e grande delicatezza. Le strumentalizzazioni ci saranno anche state dal punto di vista politico, ma solo per la gravità dei fatti attribuiti alle persone cui le famiglie si affidavano».
Eppure in questa storia sono stati innumerevoli le notizie false, sin dal giorno dell’esecuzione dell’ordinanza di custodia cautelare: tra tutti la falsità relativa all’elettroshock al quale sarebbero stati sottoposti i bambini attraverso la cosiddetta “macchinetta dei ricordi”, risultata, poco dopo, del tutto innocua, incapace perfino di provocare il solletico. Una notizia rilanciata in modo massiccio dai media il giorno del blitz. E non fu l’unica: nei giorni successivi, una serie di informazioni infondate – amplificate anche da centinaia di account anonimi sotto l’hashtag #parlatecidibibbiano – diedero vita a una campagna d’odio contro gli assistenti sociali. Vittime, da quel momento in poi, di minacce e aggressioni, con un danno enorme all’attività di cura.
Basti pensare alle motivazioni con le quali il gip di Reggio Emilia ha disposto la scarcerazione dei due principali imputati, Federica Anghinolfi, responsabile del Servizio, e Francesco Monopoli, assistente sociale: secondo il giudice, «proprio in ragione della distruzione dell’immagine pubblica degli indagati, tanto che essi devono temere per la loro incolumità», il pericolo di inquinamento probatorio «è andato via via scemando». Una conferma, dunque, dei devastanti contorni mediatici assunti dalla vicenda. E poco più avanti, nello stesso provvedimento, la gogna mediatica assurge ad ulteriore e forse più efficace misura cautelare: «I contatti (eventualmente di possibile riallaccio da parte degli indagati) con il mondo politico e ideologico di riferimento - scriveva il gip -, proprio in ragione dell’ampio risalto negativo dato dai mass media alla vicenda, non avranno verosimilmente in concreto esiti negativi per la genuinità dell’acquisizione probatoria in un futuro giudizio, posto che il timore per la propria immagine pubblica che un appoggio diretto agli indagati comporterebbe (se scoperto) costituirà un adeguato “cordone sanitario” più di qualsivoglia altra misura cautelare».
Insomma, inutile preoccuparsi: accostarsi agli indagati sarebbe equivalso ad una condanna a morte sociale. Cosa che avrebbe dovuto spingere gli addetti ai lavori ad interrogarsi sulla genuinità dei racconti dei testimoni.
Gli assistenti sociali, oggi, sono chiari: non ci stanno. «I sei euro di risarcimento non li vogliamo – si conclude la lettera, trasformata in una petizione –, ma vorremmo maggiore presenza dell'Ordine nel processo, nella sua narrazione e nel confronto con gli iscritti in merito».