«I servizi erano aprioristicamente convinti dell’esistenza degli abusi e commettevano delitti ormai sistematicamente, perché la loro volontà era quella di ristabilire la loro giustizia e che la magistratura si adeguasse a quelle convinzioni. Ma le motivazioni di Bolognini erano molto più affaristiche. Nel momento in cui i bambini tornavano a casa, le terapie di Bolognini scomparivano e scomparivano anche tutti i suoi guadagni. Ed è documentalmente provato che i guadagni che Bolognini aveva in val d’Enza erano guadagni che non aveva da nessuna altra parte. Hansel e Gretel aveva trovato la gallina dalle uova d’oro». A dirlo ieri in aula la pm Valentina Salvi, nella quinta giornata di requisitoria nel processo sui presunti affidi illeciti, il “caso Bibbiano”, durante la quale ha esposto il caso di C., la bambina che la madre aveva portato in ospedale raccontando di sospettare un abuso da parte del padre. Per la pm, la minore avrebbe sviluppato «un falso ricordo sulla vicenda dell’abuso sessuale indotto dalle modalità in cui, in sua presenza, la madre, durante quella giornata, parlò ai sanitari del motivo del suo malessere» e poi «dai genitori affidatari», del tutto in buona fede. E anche se in questo preliminare falso ricordo la psicoterapeuta Nadia Bolognini (difesa da Luca Bauccio e Francesca Guazzi) non c’entra nulla, dato che le sedute iniziano successivamente, «quello che è certo e che è documentato è che i racconti di C., nell’ambito della psicoterapia di Bolognini e solo con la psicoterapia di Bolognini, si arricchiscono di dettagli straordinari. Tutti assolutamente, equivocamente riferiti al padre, che prima erano completamente assenti nella mente di C.». La Bolognini nel corso del suo esame, secondo la pm, avrebbe mentito su più punti. E lo avrebbe fatto anche nel caso di C., «scaricando la responsabilità sugli affidatari» e dicendo «che lei in terapia si limitava a raccogliere contenuti che erano stati già ricordati in autonomia presso gli affidatari, che è una musichetta che abbiamo già sentito per altre posizioni. Lei si limitava a raccogliere quello che c’era».

La tesi della pm è che la psicoterapeuta avrebbe tentato di evitare il rientro a casa della bambina per poter guadagnare di più. Pur mancando le intercettazioni di tutta la prima fase della terapia, quelle che vanno dal 2016 all'ottobre 2018, «noi sappiamo ab origine dove le terapie andavano a mirare», ha dichiarato Salvi: a ottenere rivelazioni. «La stessa Bolognini, nella mail che abbiamo letto in sede di opposizione all’archiviazione (del padre, ndr) diceva di aver bisogno di almeno 4 mesi per poter ottenere le nuove relazioni. E quelle rivelazioni servivano a fini penali per evitare l’archiviazione e soprattutto in sede civile per evitare che C. potesse rientrare a casa». E «per quanto ne dica Bolognini - ha aggiunto Salvi -, è nella psicoterapia che riemergono questi ricordi. Infatti, prima che la psicoterapia iniziasse, la situazione era ferma» e «C. era silente davanti al perito e al gip». Bolognini avrebbe dunque alterato la memoria della bambina attraverso sedute mirate a ottenere rivelazioni specifiche, anche attraverso il gioco e il Neurotek, la “macchinetta dei ricordi”, con i quali avrebbe spinto la minore a riferire dettagli a suo dire non spontanei. La minore, secondo la pm, inizialmente non ricordava nulla, ma, con il passare del tempo e delle sedute di psicoterapia, il suo racconto sarebbe diventato sempre più dettagliato e grave. Tuttavia, quando le si chiedeva esplicitamente se fosse sicura di quanto affermava, la bambina stessa sembrava confusa.

I bambini, ha affermato Salvi, non sono rimasti lontani dalle famiglie per un breve periodo, ma per anni. Non, a suo dire, per necessità oggettive, ma per una strategia deliberata dei servizi sociali per mantenere i bambini lontani dai genitori. Un sistema che avrebbe agito secondo criteri aprioristici e ideologici, piuttosto che basati su elementi concreti. In particolare, l’ex responsabile del Servizio sociale, Federica Anghinolfi (difesa da Oliviero Mazza e Rossella Ognibene), viene paragonata a un’autorità assoluta che imponeva la sua visione senza confronto, tanto che la sua viene definita una «dittatura stalinista, elevandosi a psicologa degli psicologi o a giudice dei giudici», in quanto «aveva stabilito come dovevano andare le cose». Il fine ultimo sarebbe stato influenzare l’andamento dei procedimenti civili, assicurandosi che la magistratura confermasse le decisioni prese dai servizi sociali. Per tale motivo le richieste dei genitori e dei loro avvocati sarebbero state sistematicamente ignorate, fornendo informazioni false o incomplete ai giudici per giustificare il mantenimento della separazione. Affermazione fatta «alla luce delle innumerevoli istanze presentate dai difensori» dei genitori di C., «alla luce delle immotivate risposte fornite dal servizio, della scelta di non condividere con i bambini neanche regali o lettere, neanche condividere la consapevolezza di aver avuto un fratello, omettendo dati rilevanti nelle relazioni o fornendo elementi falsi sulla attualità della patologia da cui era affetta anche la madre».

Salvi ha riferito che nell’aprile 2019, il servizio sociale avrebbe comunicato falsamente al giudice civile che i minori erano titubanti rispetto al rivedere i genitori. In realtà, ha detto la pm, solo un’ora prima, un’altra comunicazione degli affidatari avrebbe evidenziato esattamente il contrario. E l’assistente sociale Francesco Monopoli (difeso da Nicola Canestrini e Giuseppe Sambataro), in una telefonata, avrebbe ammesso che l’incontro con i genitori sarebbe avvenuto solo a causa delle pressioni esterne. Inoltre, i Servizi avrebbero deliberatamente omesso dettagli positivi riguardo alla stabilizzazione psicologica della minore, per giustificare il prolungamento dell’allontanamento. «Alla luce di tutti questi elementi non c’è dubbio che il fine fosse proprio quello di influenzare l’andamento del procedimento civile in corso e far sì che come sempre la magistratura seguisse la strada creata e sperata dal servizio sociale», ha sottolineato Salvi. Per Monopoli la pm ha comunque ammesso di aver contestato, in un caso, il reato di depistaggio nonostante all’epoca dei fatti non fosse previsto dalla legge come reato, riqualificandolo dunque in frode processuale, reato che potrebbe essere prescritto. In un altro caso ha constatato che Monopoli aveva effettivamente scritto la verità nella sua relazione: secondo il capo d’accusa, l’assistente sociale avrebbe omesso di riferire che «la chiusura caratteriale della minore, anche di tipo fisica, era connaturata al modo di essere e non era invece collegata, come falsamente riportato a ricordi relativi ad abusi sessuali subiti così alterando valutazioni ag». Contestazione smentita dalla stessa relazione, che descrive l’atteggiamento di chiusura della giovane come «dato strutturale del carattere» della stessa. A distanza di sei anni, dunque, la pm ha preso atto che l’accusa era priva di fondamento.

La pm ha infine dichiarato l’attendibilità della paziente di Claudio Foti (assolto in via definitiva dall’accusa di lesioni e concorso in abuso d’ufficio), affermando, a sostegno di tale tesi, che anziché negare i contenuti di alcuni passaggi delle relazioni a lei sottoposti, li ha confermati. Peccato, però, che quelle relazioni siano accusate di falso e che la famiglia della ragazza ha ritirato la costituzione di parte civile al processo.

Durante l’udienza, Salvi ha però chiesto l’assoluzione di Bolgonini in merito ad un capo relativo al costo delle sedute: a seguito di un documento depositato da Guazzi, è emerso che il valore stabilito per ogni seduta era di 135 euro per 45 minuti, ma in realtà la durata delle sedute variava. Questo porta alla deduzione che, quando le sedute duravano meno di 45 minuti, il tempo "risparmiato" veniva compensato con altre sedute più lunghe.

Ma non solo: a febbraio 2020, l’assistente sociale Cinzia Magnarelli aveva patteggiato in merito al capo 39, per avere redatto in modo distorto, secondo l’accusa, i verbali sulle condizioni di alcuni minori. Quel capo, ora, sparisce: in aula, Salvi ha chiesto la prescrizione, sostenendo per il primo capoverso dell’accusa - secondo cui i servizi descrivevano falsamente lo stato del minore come depresso - di non ravvisare la relazione come atto fidefacente, mentre per il successivo capoverso la pm ha riconosciuto che la frase incriminata nella relazione accusata di falso –laddove la pm sostiene che i servizi si limitavano ad indicare che la conversazione con con la madre di C. era avvenuta in lingua inglese (di base), lasciando così intendere che quanto recepito fosse corretto, omettendo invece di riferire che la stessa era in grado di comprendere e parlare scarsamente anche tale lingua -  semplicemente non esiste. Inspiegabile, dunque, come sia potuta finire in un capo d’imputazione. La pm ha infine chiesto l’assoluzione di Anghinolfi per minaccia a pubblico ufficiale - l’ipotesi era che avesse urlato agli agenti della municipale con tono violento “voi siete la mia Polizia municipale e io vi ordino di arrestarlo” -, in quanto l’istruttoria non avrebbe dato la prova della sussistenza del reato.