PHOTO
Uno scontro dialettico, ma anche di metodo. Che vede, da un lato, la pm Valentina Salvi, titolare dell’inchiesta sui presunti affidi illeciti in Val d’Enza, e dall’altro Nadia Bolognini, psicoterapeuta e imputata di quel processo. Nel lungo controesame in corso a Reggio Emilia è emersa oggi tutta la differenza tra due linguaggi, quello giudiziario e quello psicologico. Al punto da spingere la pm a formulare una domanda: «Quali sono i comportamenti dolosi o colposi nella psicoterapia?», ha chiesto Salvi. Domanda alla quale Bolognini ha replicato con sorpresa: «Faccio fatica a pensare che in psicoterapia ci siano comportamenti dolosi o colposi», ha evidenziato, dichiarando come il suo unico interesse fosse il benessere dei pazienti, a prescindere dai processi penali in quel momento in corso. Salvi è andata alla ricerca di un «metodo», metodo che Bolognini ha negato. Un tentativo di replicare, di fatto, il processo a Claudio Foti, lo psicoterapeuta già assolto in via definitiva in abbreviato, al quale era stata imputata una personale tecnica terapeutica mai rintracciata e negata pure dalla Cassazione. Nessun metodo, dunque, se non quelli ufficialmente riconosciuti dal mondo accademico. La pm ha passato al setaccio le singole affermazioni fatte da Bolognini durante la psicoterapia condotta con i bambini, analizzando frase per frase le interazioni della psicoterapeuta con i suoi pazienti. Frasi che Bolognini, volta per volta, ha reinserito nel contesto della psicoterapia, evidenziando, tramite la lettura delle stesse intercettazioni, come i contenuti relativi agli abusi fossero emersi dai racconti degli stessi minori o degli adulti di riferimento. Tra le varie contestazioni quella di aver detto a K. - la bambina che ha chiamato i carabinieri perché lasciata da sola a casa dai genitori - che in casa sua c’era «una dimensione sessuale», frase interpretata dalla pm come una manipolazione. Ma la ragazzina, contesta l’avvocato Luca Bauccio - difensore di Bolognini insieme a Francesca Guazzi - «passava intere giornate in casa da sola a guardare film porno, che come spiega il Dsm-5 è un’esperienza sessuale». Durante l’udienza la pm è tornata sul «rapporto» tra l’allora 13enne M. e un uomo di 27 anni: la psicoterapeuta è accusata di aver frodato l’autorità giudiziaria omettendo che la ragazzina fosse consenziente e «innamorata», tanto da chiedere lei stessa all’uomo di consumare un rapporto sessuale. Bolognini ha però sottolineato la natura non legale di quel rapporto: la legge italiana, infatti, ha fissato a 14 anni l’età del consenso e pertanto non è possibile interpretare il «rapporto» come consensuale. La pm ha inoltre interrogato Bolognini sull’utilizzo del Neurotek, la famigerata “macchinetta dei ricordi”, definita dalla consulente dell’accusa Elena Francia «uno strumento che ruba i pensieri», addirittura anticamera «di un disturbo psicotico» e che secondo una prima versione del racconto mediatico serviva per fare l’elettroshock ai bambini. Nulla di tutto ciò, trattandosi di una macchinetta innocua impiegata per la terapia Emdr. «L’intensità del segnale elettrico generato dalle cuffie del dispositivo, che ho provato con delle cuffie normalissime, al massimo anche della potenza è paragonabile all’intensità del segnale generato da una canzone ascoltata con delle cuffie di uno smartphone», aveva infatti chiarito in aula il consulente tecnico dell’accusa Michele Vitiello. Salvi ha chiesto conto del suo utilizzo in merito alle sedute con il piccolo A., che secondo quanto denunciato dalla madre ai carabinieri tre anni prima che entrasse in contatto con gli imputati del processo sarebbe stato abusato dal padre. Bolognini ha però chiarito di non aver mai utilizzato il Neurotek con quello specifico minore e, in generale, nelle sedute con i bambini coinvolti nel processo (tranne che in un’occasione, con un piccolo paziente, N., che lo ha testato in funzione rilassante). Eppure, i carabinieri avevano riferito al padre di A. - nel momento in cui venne ascoltato a sommarie informazioni testimoniali - che il bambino era stato sottoposto a queste «scosse», situazione che lo aveva turbato tanto da farlo piangere.
Salvi ha chiesto a Bolognini da chi avesse avuto notizie di scritti o disegni con contenuti sessuali, informazioni che la psicoterapeuta aveva avuto nel lavoro d’equipe. I minori arrivavano da Bolognini dopo l’invio effettuato dalla psicologa dell’Ausl, che forniva alla professionista le informazioni che aveva acquisito. Ausl che, nel processo, è però parte civile, ma anche responsabile civile. La psicoterapeuta ha comunque chiarito che per la sofferenza che il minore manifestava, e che Bolognini doveva trattare per la sua cura, era rappresentata dai contenuti e dagli agiti che i minori le portavano in seduta, quindi non necessariamente abusi: erano quindi fatte diverse ipotesi, e diverse alternative, per comprendere la possibilità di diagnosi differenziali. Secondo la pm tali ipotesi andavano però esplicitate anche al minore in terapia, un’affermazione contestata da Bolognini, che ha chiarito come da un punto di vista scientifico ciò non sia corretto, che si tratti di pazienti minori o adulti: è il terapeuta a dover indagare le cause, proprio tramite le domande. Ancora la Bolognini ha chiarito che alcune domande che lei doveva fare al minore erano dovute sulla base del questionario elaborato da Bessel Van der Kolk (il massimo esperto internazionale per il trattamento del trauma). Inoltre alcune domande, per l’accusa, rappresenterebbero una forma di insistenza, circostanza che secondo la pm confermerebbe l’ipotesi accusatoria, ovvero che il narrato non appartenga alla sfera della realtà, ma sia frutto di una sorta di manipolazione. Da qui la richiesta, a Bolognini, di fornire un «riscontro» ai fatti intrapsichici narrati dai pazienti. I fatti intrapsichici, però, sono, per definizione, non materiali, trattandosi di elaborazioni interiori. Insomma, una battaglia tra diritto penale e la disciplina psicoanalitica, evidentemente assoggettati a regole diverse.