«Le evidenze mostrano un quadro opposto rispetto a quello presentato dall’accusa: le intercettazioni, il parere degli esperti, le relazioni dei servizi sociali e le numerose comunicazioni che le affidatarie inviavano ai servizi descrivono una realtà fatta di cura e attenzione incredibili». Si può riassumere così la relazione tra la piccola K. e le affidatarie F. e D., oggi imputate a Reggio Emilia nel processo sui presunti affidi illeciti “Angeli e Demoni”. A ribaltare il quadro negativo prospettato dall’accusa, ieri in aula, è stata Samantha Miazzi, psicologa e psicoterapeuta esperta in traumi complessi, consulente della difesa rappresentata da Andrea Stefani e Valentina Oleari Cappuccio, che ha stilato una relazione di oltre 500 pagine sul caso più mediatizzato della vicenda. Secondo la consulente - ultima teste prima delle dichiarazioni spontanee degli imputati e della requisitoria della pm Valentina Salvi -, «l’accusa assume una narrativa secondo cui pochi momenti critici, come quelli che verosimilmente possono accadere in qualsiasi relazione genitore-figlio, sarebbero rappresentativi dell’intera relazione». Ma tutti gli atti a disposizione dimostrerebbero una realtà radicalmente opposta, ovvero una storia di «cura» e «una modalità relazionale basata sulla comprensione, sull’empatia e sul rispetto delle emozioni di K.». Le due affidatarie avrebbero dimostrato una «buona genitorialità» e «una dedizione straordinaria al benessere di K.». Che infatti, a sommarie informazioni, le descrive come una famiglia amorevole. «Mi trovo molto bene con loro - raccontava otto mesi prima degli arresti -. Loro proprio sono un’altra famiglia. Loro mi vogliono bene e cercano sempre di... sono triste e loro cercano sempre di parlarne, anzi loro vogliono parlarne cosi? dopo sto bene (...). Cioe? la differenza in cui stavo... dalla famiglia in cui stavo prima e in cui sto adesso, io proprio voglio rimanere qui».

Quando K. è stata affidata a F. e D., nel 2016, era una bambina segnata da traumi profondi, manifestando un quadro sintomatologico complesso e comportamenti disfunzionali «compatibili con un background di trauma relazionale». Tra i principali sintomi, documentati anche nella consulenza di Miazzi, vi erano disregolazione emotiva, con difficoltà nella gestione della rabbia e della frustrazione; comportamenti regressivi e adultizzati, oscillando tra modalità infantili e atteggiamenti seduttivi incongrui per la sua età; disturbi del sonno, tra cui incubi ricorrenti e paura del buio, che la portavano a cercare la vicinanza di un adulto per addormentarsi. Ma, soprattutto, c’erano comportamenti sessualizzati, segno di possibili esposizioni a contenuti inappropriati per l’età. Segnali compatibili con la diagnosi di Disturbo traumatico dello sviluppo, derivante, ha affermato Miazzi, da esperienze avverse vissute nei suoi primi anni di vita. K. aveva trascorso l’infanzia in un contesto familiare segnato da violenza assistita, trascuratezza emotiva e materiale e una continua conflittualità genitoriale. La consulente, citando ampia letteratura, ha evidenziato che i comportamenti sessualizzati, «se presenti, sono tra i pochi indicatori specifici di abuso sessuale». La loro presenza potrebbe essere indicativa anche di altre problematiche, «ma sono sempre e comunque legati a una sofferenza, quindi da non considerare “normali”». E anche l’assenza di tali comportamenti «non è necessariamente prova che non sia avvenuto l’abuso». Una premessa che conferma la «correttezza» del comportamento delle due affidatarie, che di fronte a tali comportamenti “anomali” «si sono preoccupate e hanno riferito tali osservazioni alle figure specialistiche coinvolte».

Sin dai primi momenti dell’affido, dunque, le due donne «si sono trovate di fronte a una bambina in grave difficoltà sul piano psicologico». Ma le valutazioni cliniche e le testimonianze, «concordano nel descrivere un trend di miglioramento costante di K. sul piano comportamentale e relazionale durante il periodo trascorso con le affidatarie». Un miglioramento ancora più significativo se paragonato al «peggioramento documentato dai professionisti che hanno seguito K. dopo l’allontanamento dalle affidatarie, segno che l’ambiente familiare affidatario rappresentava un contesto di supporto e protezione, incompatibile con le accuse di presunti maltrattamenti».

L’allontanamento della minore dalla casa delle affidatarie, però, «ha rappresentato una ferita aggiuntiva» che «ha verosimilmente amplificato le vulnerabilità preesistenti, interrompendo un percorso di recupero che sembrava finalmente avviato verso una maggiore sicurezza». Una situazione peggiorata dal racconto che a K. veniva fatto delle affidatarie, accusate di maltrattamenti, «destabilizzandola ulteriormente». Miazzi ha anche criticato la relazione della consulente della procura Elena Francia, date le carenze metodologiche, tra cui l’assenza di una valutazione diretta di K., l’uso limitato di strumenti diagnostici validati e una lettura parziale delle intercettazioni. Contrariamente, l’analisi completa delle intercettazioni avrebbe dimostrato una «funzione genitoriale protettiva e regolativa» da parte delle affidatarie, che «non hanno mai rivolto offese ai genitori della bambina» né avrebbero mai potuto manipolarla e instillare in lei una falsa credenza o un falso ricordo. «Le narrazioni di K., i suoi sintomi e le sue manifestazioni emotive non potevano essere spiegati attraverso fenomeni di suggestione o manipolazione», ha spiegato la consulente. Le false memorie, inoltre, sono rare e quando emergono «riguardano spesso dettagli marginali o eventi plausibili, non certamente esperienze traumatiche complesse». I sintomi di K., invece, erano compatibili «con un quadro clinico che rispecchiava gli effetti di esperienze traumatiche realmente vissute, evidenziando una coerenza tra il suo vissuto, i comportamenti osservati e le reazioni neurofisiologiche documentate dalla letteratura».

Le affidatarie hanno comunque «sempre dimostrato estrema attenzione ai sentimenti di K. verso i genitori naturali, rispettandoli e valorizzandoli», come dimostrato dalle «numerose azioni volte a favorire la relazione di K. con la famiglia naturale». E in alcuni casi sono arrivate a sollecitare il Servizio sociale affinché la bambina «potesse trascorrere più tempo con i genitori». Insomma, il loro comportamento costituisce «manifestazione di funzioni genitoriali riflessive, responsabili e orientate al benessere psicologico di K., con una sensibilità non comune». Al contrario, la vita di K. «nella prima infanzia è costellata di esperienze avverse, in grado di impattare negativamente sul suo sviluppo psico emotivo». Esperienze che potrebbero aver contribuito «allo sviluppo di un attaccamento insicuro o disorganizzato». Se l’allontanamento dalla famiglia d’origine rappresenta, di per sé, «un evento potenzialmente traumatico per qualsiasi bambino», non si possono ignorare le premesse che hanno condotto all’allontanamento di K., che chiamò personalmente i carabinieri, su indicazione del padre, in quanto lasciata da sola a casa. Il suo allontanamento, dunque, in realtà si è inserito «in un contesto di esperienze relazionali profondamente disfunzionali» che la relazione di Francia sembra trascurare.