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Fermi tutti: l’assoluzione dell’ex sindaco di Bibbiano Andrea Carletti è un regalo di Nordio. Parola di chi ha condotto, per anni, il processo mediatico, basandosi su un unico elemento: un racconto a senso unico, frutto di una lettura sommaria dell’ordinanza di custodia cautelare, documento di per sé parziale e, soprattutto, aderente ad una tesi senza contraddittorio. Tesi che in un’aula di Tribunale - il luogo di formazione della prova - si sta lentamente ridimensionando, per non dire sbriciolando, alla luce dei molti documenti recuperati con esasperante puntualità dalle difese. Che non solo hanno trovato i pezzi mancanti, ma hanno anche smontato, con i loro controesami, le certezze che ancora oggi, con convinzione altrettanto esasperante, gli stessi giudici mediatici di allora portano avanti. Semplicemente perché ignorano i fatti. Le «raccapriccianti intercettazioni» - copyright Selvaggia Lucarelli -, sbattute sui giornali e che da sole basterebbero a saltare il processo per arrivare dritti alla sentenza definitiva (pronunciata non in nome del popolo italiano, ma dal popolo dei social per direttissima), sono coriandoli di dialoghi più ampi, il cui significato è profondamente diverso. Basterebbe ascoltarli. Si ignora il contesto e si ignorano altre intercettazioni, come quella (per fare un piccolo esempio) della minore data in affido ad una coppia omogenitoriale che dice alla madre naturale: «Non mi maltrattavano, perché le accusano di averlo fatto?». E si ignorano pure le risate del bambino in quella che, ascoltata per pochi secondi, sembra un’aggressione da parte della psicoterapeuta al minore, forse l’intercettazione più abusata nei discutibili salotti tv trasformati in laboratorio scientifico e giuridico. Sono cose che la stampa italiana ha ignorato, perché ha scelto di non seguire nemmeno un minuto del processo, a riprova del fatto che la condanna è già nell’accusa. E che tutto ciò che si fa, dopo la lettura del testo sacro delle procure, è andare alla ricerca di conferme della tesi che si è scelto di sposare. Se la stampa avesse seguito il processo, avrebbe scoperto molte cose interessanti, come ad esempio il fatto che finora tutti i testi dell’accusa si sono rivelati un boomerang pazzesco, di fatto smentendo ogni idea di sistema (una parola di per sé senza senso, dato che i casi “sospetti” sono otto su centinaia). Questo discorso vale anche e soprattutto per l’abuso d’ufficio. Chi segue il processo sa che le difese avrebbero preferito una pronuncia di merito prima dell’abrogazione del reato, ma si sa, le sentenze non si possono retrodatare come i post su Facebook. E allora tocca affidarsi ai fatti. Che sono ostinati. Il primo: Carletti, per il quale la Cassazione aveva duramente criticato le misure cautelari inflitte, era accusato per tre episodi di abuso d’ufficio e un falso ideologico. Oltre a quello per il quale era finito a processo - aver messo a disposizione della “Hansel & Gretel”, la onlus dello psicoterapeuta Claudio Foti (assolto in via definitiva), locali pubblici senza alcuna gara -, la procura gli contestava di aver partecipato alla falsificazione della causale delle somme versate agli affidatari, di aver abbassato il valore della soglia dei servizi, spacchettandoli, per prorogarli senza gara e, infine, per aver affidato il servizio legale all’avvocato Marco Scarpati, scagionato subito dalle accuse (ma che ancora ne subisce le conseguenze). Accuse che non hanno superato però la fase delle indagini, perché inconsistenti. E anche quella per la quale era a processo era già stata smontata dalla Cassazione nel processo a Foti: l’incarico a “Hansel&Gretel”, si legge nella sentenza, è seguito a un bando ed è stato confermato da una delibera. In aula moltissimi testi (si ribadisce: dell’accusa) hanno chiarito che tutto era avvenuto seguendo le regole (si veda, tra le altre, la testimonianza della responsabile Ufficio piano della Val d’Enza Nadia Campani, il 17 aprile 2024). Confermando pure che l’Ausl non aveva psicoterapeuti formati e che per tale motivo andavano presi da fuori (tra le altre, la testimonianza di Gaddomaria Grassi, direttore del Dipartimento di salute mentale dell’Ausl, il 29 maggio). Chi, dopo l’assoluzione in appello di Foti, aveva provato a salvare l’idea di un metodo si era basato proprio sull’abuso d’ufficio, che per i giudici di Bologna lo psicoterapeuta non aveva commesso, ma forse altri sì. Ebbene, al netto della smentita poi fatta dalla Cassazione, è alquanto bizzarro pensare che affidare un locale in maniera illecita sia la certificazione di un metodo psicoteraputico o di una ideologia.
Si potrebbe andare avanti all’infinito, ma sarebbe un accanimento terapeutico probabilmente privo di risultati per chi giustifica un altro tipo di accanimento, quello mediatico, basato su un racconto che forse serve a non ammettere i propri errori. Perché, ad esempio, di “metodo Foti” non si può parlare, laddove Claudio Foti - è acclarato - non ha inventato nulla con la sua psicoterapia. Psicoterapia che - anche questo è acclarato - non ha provocato alcun danno (e non avrebbe potuto, dice la scienza). Sarebbe bastato guardare i video di quelle sedute (di cui pure tutti parlano, ma a casaccio) per sapere pure che non c’è nulla di ciò di cui è stato accusato, perché Foti non ha mai imputato al padre della sua paziente di averla abusata. Né lo ha scritto da qualche parte. A meno che non si voglia interpretare quell’“ora non ho più voglia di morire”, pronunciato alla fine della terapia dalla ragazza, come la dimostrazione di uno stravolgimento della psiche terribile. Certo, si parla di ideologia, laddove ogni evento tremendo legato ad indagini sugli abusi nel globo terracqueo sia riconducibile, per una sorta di legge non scritta, a Foti. Come il suicidio di una bidella di cui mai ha saputo nulla, fino alla lettura dei giornali che lo accusavano di averla indotta ad uccidersi. Solo nel caso di Foti, ci viene detto, il suicidio smette di essere un fatto personale e insondabile - come lo è in altri casi un po’ più complessi -, diventando diretta responsabilità di uno che non era al corrente nemmeno dell’esistenza di quella povera donna e a stento conosceva la psicoterapeuta coinvolta, che aveva solo partecipato ad un evento in cui c’era lui. Non importa: la colpa è a prescindere di Foti. Così ha deciso il tribunale dei social, anche se i tribunali veri dicono il contrario. Perché la colpa di Foti è quella di vedere abusi ovunque. Nemmeno questo, a dire il vero, è un fatto reale. Foti non ha mai fornito dati, numeri e percentuali che non fossero ufficiali: come quelli di Terres des Hommes, che pochi giorni fa certificava un aumento dei reati sui bambini, soprattutto in famiglia, immaginiamo senza chiedere a Foti alcun parere (i dati sono della polizia). Purtroppo, però, a Terres des Hommes nessuno ha assegnato la patente di “onestà intellettuale”. Quella garantita d’ufficio a chi trasforma in verità assodata la propria tesi, al netto delle sentenze. E delle parole delle vittime.