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Non sarebbe stato accertato «nessun danno», causato dalle psicoterapie, sui minori coinvolti nel caso “Angeli e Demoni”. Il rischio individuato sarebbe in realtà solo «potenziale», ipotetico, nonostante ciò che è stato scritto nei capi di imputazione, che invece davano per certo quel danno. Tanto è emerso lunedì nel corso del processo sui presunti affidi illeciti in Val d’Enza, all’esito del controesame della teste Melania Scali, la psicologa nominata consulente dalla procura di Reggio Emilia nel novembre 2018. La pm Valentina Salvi aveva chiesto di far ascoltare in aula le intercettazioni ambientali relative alla psicoterapia oggetto di consulenza tecnica, richiesta alla quale si è opposto Oliviero Mazza, difensore, insieme a Rossella Ognibene, dell’ex responsabile dei servizi sociali Federica Anghinolfi. Per Mazza si tratterebbe di un «fuor d’opera», avendo la consulente già ascoltato gli audio in questione. Un metodo «suggestivo», finalizzato a «fornire una rappresentazione ad uso mediatico, ad uso dei giornalisti e del pubblico», che per la pm sarebbero potuti rimanere in aula. La Corte ha infine accolto la richiesta dell’accusa, ma Mazza ha chiesto di far uscire dall’aula pubblico e giornalisti, dal momento che tra le voci da ascoltare c’erano anche quelle dei minori, richiesta alla quale il collegio ha acconsentito. La pm ha dunque chiesto di riprodurre le registrazioni con i sottotitoli che, stando a quanto affermato in aula, erano tratti dalle trascrizioni peritali disposte dal Tribunale. Ma dopo circa due minuti dall’inizio dell’ascolto, le difese hanno riscontrato differenze tra le trascrizioni peritali e quelle che accompagnavano gli audio, trascrizioni che, pertanto, erano verosimilmente riferite ai brogliacci. Il Tribunale ha quindi revocato la sua ordinanza, disponendo che i sottotitoli non venissero più proiettati.
Nel suo elaborato la consulente aveva scritto in maniera affermativa che le domande delle psicoterapeute erano suggestive, che la terapia aveva prodotto falsi ricordi e che questo falso ricordo ha interferito con l’attività giudiziaria, sia civile che penale. Una certezza che è venuta meno al termine del controesame, quando Scali ha accolto la richiesta di Mazza di “correggere” un verbo all’indicativo, ammettendo - a seguito delle domande di Luca Bauccio, difensore insieme a Francesca Guazzi della psicoterapeuta Nadia Bolognini - che le sue conclusioni potevano essere formulate solo in termini di mera possibilità. «Il che nel processo penale significa che la prova è fallita - ha commentato Mazza -, perché noi non possiamo accontentarci di una mera possibilità, dobbiamo avere una alta probabilità, quella che ci consente di superare il ragionevole dubbio». Bauccio ha evidenziato, inoltre, che la consulenza firmata da Scali, oltre alle asserzioni trasformate in mere possibilità, contiene, nelle ultime due righe, delle domande: questi bambini non avranno pregiudizi? Quali conseguenze avranno? - questo il tenore delle questioni. Domande che, però, ha sottolineato il difensore di Bolognini, rappresentavano proprio l’oggetto della consulenza. «Ho solo detto che c’è un rischio “potenziale”», ha concluso la teste. Che ha dunque “riscritto” in aula il suo lavoro. Incalzata dalle domande di Bauccio, Scali ha infatti affermato che «nessun esame sui minori è stato svolto». Inoltre, la consulente non avrebbe applicato alcun metodo di analisi delle conversazioni, affidandosi alla sua personale percezione, fatto contestato dalle difese come «antiscientifico».
Nel corso del controesame - che si concluderà domani - è emerso come la consulente abbia qualificato come suggestive le domande di Bolognini partendo dal presupposto che sarebbe stata lei ad introdurre i contenuti relativi al presunto abuso subito dal bambino da parte del padre, salvo poi ammettere di non aver sentito né letto i contenuti delle sedute precedenti, senza i quali era impossibile stabilire se quell’argomento fosse stato introdotto o meno dal bambino. E stando alla denuncia presentata dalla madre prima di entrare in contatto sia con i servizi sociali sia con gli psicoterapeuti della Val d’Enza, era stato proprio il bambino a confessare alla madre - che poi si era rivolta alle forze dell’ordine - di aver subito abusi da parte del padre (la cui posizione è stata poi archiviata). Scali ha infatti effettuato la sua consulenza solo sui materiali forniti dal pubblico ministero, che avrebbe - secondo le difese - operato una «selezione» del materiale.
«È evidente - ha commentato Bauccio - che l’imputata viene processata sulla base di prove monche, insufficienti, parziali. Con l’esame della dottoressa Scali cade l’ennesimo caposaldo dell’accusa: non vi è alcuna base e metodo scientifico nell’imputazione contro Nadia Bolognini».
Sempre a domanda dell’avvocato Bauccio, la consulente ha dichiarato di non avere una specializzazione né di aver mai fatto studi in materia di trauma. Ciò nonostante tutta la consulenza vertesse proprio sulla psicoterapia del trauma. Se, in un primo momento, ha affermato che «non è possibile fare domande chiuse» - ovvero domande che servono a incitare all’azione l’interlocutore -, successivamente la teste ha ammesso il contrario, una volta che la difesa ha citato la letteratura scientifica sul punto, letteratura che paradossalmente appartiene all’area scientifica contrapposta a quella di Bolognini e Claudio Foti, lo psicoterapeuta assolto in abbreviato in via definitiva.
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A intervenire anche la presidente Sarah Iusto, che ha chiesto alla teste - citando la sua consulenza - se confermava che la psicoterapia del trauma non può essere avviata in caso di ipotesi di reato. Scali ha confermato quanto scritto - nonostante fosse stato il Tribunale dei minori a ordinare la terapia -, assunto contraddetto, però, dalle linee guida dell’ordine degli psicologi del Lazio, al quale Scali appartiene. Secondo tali linee guida, che Bauccio ha letto in aula, la terapia può essere avviata in costanza di un procedimento penale in ogni stato e grado». Ma non solo: nella sua consulenza Scali aveva definito «scorretto» l’uso di bambole e disegni nella psicoterapia - il riferimento è al famoso “lupo” di pezzo definito “travestimento” nel capo d’imputazione -, nonostante sia stata la stessa Scali, ha evidenziato Bauccio, in un libro di cui è coautrice, ad affermare che «si possono usare le bambole nell’accertamento dell’abuso, così come i disegni».