La Procura di Palermo, guidata dal procuratore Maurizio De Lucia, ha sferrato un duro colpo al cuore di Cosa nostra, ancora una volta intenta a riorganizzarsi attraverso i lucrosi proventi del traffico di droga. Con un’ordinanza di custodia cautelare per 183 affiliati, tra cui alcuni già detenuti, emerge un quadro interessante: da un lato, l’utilizzo di sistemi criptati all’avanguardia; dall’altro, un’organizzazione indebolita rispetto all’epoca d’oro di Totò Riina, tanto da doversi appoggiare alla ‘ ndrangheta per riconquistare il controllo dei floridi traffici di droga.

Quella di Palermo è una Procura che, sotto la nuova guida, torna a far parlare di sé per la lotta alla mafia. Un cambio di passo significativo, considerato che in passato l’attenzione sembrava concentrarsi su indagini contro presunte entità o su processi in cui si cercava goffamente di riscrivere la storia con una chiave “trattativista”, al punto da suscitare perplessità persino tra studiosi del calibro di Salvatore Lupo. Non da ultimo, va ricordato che lo stesso ufficio – grazie al lavoro coordinato dal procuratore Paolo Guido, noto per aver rifiutato nel 2012 di firmare l’avviso di conclusione delle indagini preliminari sul teorema, in seguito risultato fallimentare, della “trattativa Stato- mafia” – ha recentemente catturato il superlatitante Matteo Messina Denaro.

Prima dell'odierna maxi- operazione, la Procura aveva già colpito i vecchi boss di Uditore e Passo di Rigano: Franco Bonura (appena uscito dal carcere dopo anni di 41 bis), il noto costruttore mafioso Agostino Sansone, così come Girolamo, Giovanni e Antonino Buscemi. Quest’ultimo, da non confondere con l’omonimo parente deceduto, noto per essere entrato in società con il colosso Ferruzzi- Gardini, garantendo a Totò Riina un potere egemonico per quanto riguarda la spartizione degli appalti pubblici.

GLI STESSI DEL DOSSIER MAFIA APPALTI

Questi boss, da Bonura ai Buscemi, hanno tentato di riorganizzarsi puntando sugli appalti. A differenza dei clan che si sono modernizzati con il traffico di droga e tecnologie avanzate, i vecchi mafiosi sono rimasti ancorati alle loro tradizioni, continuando a incontrarsi nei fondi di Passo di Rigano, come accadeva già nell' 800. È il contrasto tra una mafia tecnologica e una tradizionalista che ambisce a tornare ai grandi affari del passato. Il clan Buscemi rappresenta un esempio emblematico di continuità.

Girolamo Buscemi compare già nel famoso dossier mafia- appalti redatto dagli ex Ros Giuseppe De Donno e Mario Mori sotto la supervisione di Giovanni Falcone. Le indagini rivelavano già allora un intricato sistema di parentele mafiose: la moglie di Girolamo era sorella di Francesca Spatola, coniugata con Rosario Inzerillo, fratello del noto mafioso Salvatore Inzerillo e di Pietro, sposato con la cugina di Vito Buscemi. Questi ultimi gestivano diverse attività imprenditoriali mafiose insieme ai famigerati fratelli Salvatore e Antonino Buscemi.

Girolamo Buscemi, oggi indicato dalle indagini come boss mafioso, era tra gli indiziati del dossier la cui posizione però non compare nemmeno nella richiesta di archiviazione giunta al gip nel 1992, dopo la strage di Via D'Amelio. Anche suo fratello Giovanni, tra i destinatari dell'ordinanza cautelare, viene citato nella storica informativa degli allora Ros Mori e De Donno tra i parenti di rilievo nell'imprenditoria mafiosa. Significativo è un dialogo intercettato tra Agostino Sansone e una sua sodale, nel quale viene menzionata l'impresa Icom di Palermo, già citata nel dossier mafia- appalti per i suoi legami con le imprese di Angelo Siino e Giuseppe Bulgarella negli affari a Pantelleria. E ritornando ai Buscemi c’è il rischio di perdersi nel groviglio di parentele. Sempre dall’ordinanza recente, emblematico il dialogo con Sansone dove lui stesso, facendo confusione si chiede chi fosse questo “Mummino” (Girolamo Buscemi). Al che il suo interlocutore è costretto ad ammettere che sono tutti generi, nipoti, zii, sottolineando la loro unità che fa la forza.

LA VECCHIA MAFIA

Le indagini rivelano il tentativo di riorganizzare le cosche puntando a un ritorno alle “cose antiche”: evitare il clamore, privilegiare gli appalti e l'edilizia rispetto al pizzo e al narcotraffico. L'ideologia mafiosa rimane forte, come dimostrano le intercettazioni tra Buscemi e Bonura. Quest'ultimo ribadisce la sua fedeltà ai principi di Cosa nostra, dichiarandosi disposto a tutto pur di non tradire. Nonostante le pressioni investigative e gli arresti dei familiari, Bonura mantiene il suo rifiuto categorico di collaborare, preferendo rischiare l'ergastolo piuttosto che tradire chi ha goduto della sua fiducia. Questo atteggiamento riflette il classico codice d'onore mafioso, dove la lealtà all'organizzazione e l'omertà prevalgono su tutto, anche sugli affetti familiari e la libertà personale. Una mentalità che caratterizza gli uomini d'onore “di vecchio stampo”, refrattari a qualsiasi collaborazione con la giustizia. Chi lo abbia aiutato in passato lo sa bene, ma questa è materia di altre indagini, quelle della procura di Caltanissetta sul ruolo di mafia- appalti come causa delle stragi di Capaci e Via D'Amelio.

IL CARCERE È UN COLABRODO?

Per quanto riguarda la maxi operazione invece, durante la conferenza stampa sul blitx che ha portato all’arresto di 183 presunti mafiosi, ecco cosa ha detto il procuratore nazionale Antimafia Giovanni Melillo: «Da questa straordinaria indagine della Procura di Palermo viene fuori un dato allarmante: l’estrema debolezza del circuito penitenziario di alta sicurezza che dovrebbe contenere la pericolosità dei mafiosi che non sono al 41 bis. L’inchiesta di Palermo mostra chiaramente, confermando quanto emerso in altri contesti investigativi, che il sistema di alta sicurezza è assoggettato al dominio della criminalità». Eppure, paradossalmente queste indagini confermano che il controllo esiste. Le indagini hanno evidenziato come l'organizzazione mafiosa abbia saputo sfruttare le moderne tecnologie per aggirare i controlli carcerari.

L'utilizzo di minuscoli telefoni cellulari e sim card a breve durata ha permesso ai detenuti di continuare a gestire gli affari criminali dalle loro celle attraverso videochiamate, servendosi di un sistema di “citofoni” esterni apparecchi dedicati esclusivamente a ricevere chiamate dall'interno del carcere. Questo ha consentito loro di organizzare vere e proprie riunioni mafiose a distanza e impartire ordini. Tuttavia, questa modernizzazione si è rivelata un'arma a doppio taglio.

Gli inquirenti sono riusciti a intercettare numerose conversazioni dei detenuti in questione, nonostante i sofisticati sistemi organizzativi messi in atto per evitare le intercettazioni. Un caso emblematico è rappresentato dal pestaggio di Giuseppe Santoro: i fratelli Lo Presti, dal carcere, non solo hanno pianificato minuziosamente l'aggressione e selezionato gli esecutori, ma hanno addirittura assistito in diretta all'azione criminale attraverso una videochiamata.

L'uso dei criptofonini, inoltre, se da un lato ha facilitato le comunicazioni riservate tra i vari mandamenti e con i trafficanti di droga, dall'altro ha fornito agli investigatori preziosi elementi probatori, permettendo di documentare l'unitarietà dell'organizzazione criminale e le sue attività illecite. Ciò significa che non si ottiene nulla con l’irrigidimento (tra l’altro già è stata introdotta una legge punitiva sull’introduzione illecita dei cellulari), ma solo attraverso un controllo capillare. D'altronde lo stesso segretario della UilPa Gennarino De Fazio, condannando il fallimento del carcere anche sotto questo aspetto, chiede di rendere tutto chiaro e funzionale, limitando al massimo il ricorso al carcere e nel contempo garantendo il rispetto di tutte le regole.