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«I poveretti che sono in carcere non li fanno uscire, i boss che comandano vengono accompagnati a casa!», ha tuonato Massimo Giletti, il conduttore di Non è L’Arena. Lo ha detto durante la trasmissione di ieri sera trattando il caso dei domiciliari concessi al boss Pasquale Zagaria, invitando però al dibattito tutti coloro che la pensano allo stesso modo (infatti non era presente nessun giurista, nessun magistrato di sorveglianza, nemmeno il garante nazionale dei detenuti), tra i quali il capo del Dap Francesco Basentini che ha avuto però la sfortuna di essere preso come capro espiatorio del presunto scandalo. Giletti, in modo decisamente populistico, ha contrapposto i detenuti "comuni" che restano in carcere - quasi che il loro destino gli stesse davvero a cuore - ai boss che escono per chissà quale arcano motivo. Ma si tratta dello stesso Giletti che solo poco tempo fa attaccava chiunque chiedesse una riforma che puntasse alle misure alternative, tuonando come un "Travaglio minore" - ne ha ancora di strada da fare per raggiungere la "caratura" del fondatore del Fatto - contro lo “svuotacarcere”. Ovviamente, giocando sulla facile dialettica populista, Giletti ha fatto leva sull’emotività. «Io italiano – ha sbottato in diretta -, che ho perso amici nella lotta contro la criminalità organizzata, ho negli occhi un carabiniere che è morto caduto da una scogliera per mettere una microspia, io come cittadino italiano mi vergogno, è un fatto inammissibile e intollerabile». Come per dire che aver concesso il differimento dell’esecuzione della pena per grave infermità fisica per un arco temporale di 5 mesi (poi Zagaria dovrà ritornare al 41 bis), significhi piegarsi alla logica mafiosa e dare uno schiaffo alle vittime della mafia. Da sempre funziona così. La Corte Europa ha decostruito alcuni meccanismi (in seguito dichiarati incostituzionali) dell’ergastolo ostativo? Subito si innalzano i cori indignati parlando a nome dei familiari delle vittime della mafia. La stessa Fiammetta, figlia del giudice Paolo Borsellino dilaniato dal tritolo a via D’Amelio, l’anno scorso ha partecipato al “Festival della comunicazione sulle pene e sul carcere” organizzato dalla “Conferenza nazionale volontariato giustizia” e nel suo intervento ha parlato delle inchieste sulla morte del padre, definendole il «depistaggio più grave, nonché uno degli errori giudiziari più gravi della storia giudiziaria di questo paese». Ma ha anche parlato della sentenza sull’ergastolo ostativo e si è detta d’accordo e ha stigmatizzato i titoloni di alcuni giornali del tipo “Hanno riammazzato Falcone e Borsellino”. Inoltre, alla domanda se è giusto parlare a nome dei famigliari delle vittime della mafia, Fiammetta ha risposto che è assolutamente sbagliato perché «ognuno ha la propria identità, pensieri e vissuti». Una bella lezione, quella di Fiammetta, che però è rimasta inascoltata proprio da coloro che usano i nomi di Falcone e Borsellino per criticare il provvedimento come quello emesso nei confronti del boss Pasquale Zagaria. Un provvedimento, come ha relazionato il magistrato Riccardo De Vito del tribunale di sorveglianza di Sassari, dovuto dal fatto che a Zagaria non è stato destinato un luogo di cura idoneo proprio come richiesto dagli avvocati. Alla luce di ciò, «lasciare il detenuto in tali condizioni – si legge nell’ordinanza - equivarrebbe esporlo al rischio di progressione di una malattia potenzialmente letale, in totale spregio del diritto alla salute e del diritto a non subire un trattamento contrario al senso di umanità», non essendovi dubbio che «permanere in carcere senza la possibilità di effettuare ulteriore e “indifferibili” accertamenti equivale ad esporre il detenuto a un pericolo reale dal punto di vista oggettivo e a un’incognita di vita o morte del tutto intollerabile e immeritata per ogni essere umano».