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È stato un periodo caldissimo per la Bolivia nonostante il Paese, trovandosi nell’emisfero Sud, sia in realtà in pieno inverno.
Il casus belli principale è stata l’ennesima posticipazione della data delle elezioni, ma non è l’unico motivo di tensione in un Paese che da novembre 2019, dopo le dimissioni di Evo Morales, si trova in una situazione di transizione che si sta prolungando più del dovuto.
E all’interno della quale si sospetta che i diritti umani vengano sistematicamente violati.
A partire da fine luglio movimenti sociali di tutto il Paese, con in testa la Central Obrera Boliviana (Centrale Operaia Boliviana, il principale e storico sindacato del Paese), hanno bloccato le autostrade in più di centopunti nevralgici allo scopo di protestare contro lo spostamento della data delle elezioni al 18 ottobre. La decisione era stata presa dal Tribunale Supremo Elettorale per via dell’acutizzarsi dell’epidemia da Sars- Cov2. È il quarto rinvio in un anno: inizialmente previste per il 3 maggio, per via dell’arrivo del coronavirus le elezioni erano state spostate prima al 2 agosto e poi ancora al 6 settembre.
Quest’ultima data era stata mal digerita dalla presidente Jeanine Añez, che avrebbe preferito si andasse a novembre, ed era stata imposta dall’Assemblea Plurinazionale, ancora sotto il controllo del Mas guidato da Morales. Infine il posticipo al 18 ottobre, che la Cob e altri movimenti hanno avvertito come l’ennesimo tentativo da parte del governo in carica, al quale hanno anche richiesto le dimissioni, di rimanere al potere quanto più possibile.
Sono seguite due settimane di altissima tensione, durante la quale si è temuto che i contagi, già in crescita, potessero aumentare senza alcun controllo, e che le necessarie risorse sanitarie non arrivassero a destinazione. Il governo ha accusato gli organizzatori della protesta, tra i quali ha voluto includere anche l’ex presidente Morales e l’attuale candidato del Mas alle presidenziali, Luis Arce (ora entrambi indagati per questo), di aver provocato il mancato arrivo di bombole di ossigeno negli ospedali boliviani e la conseguente morte di più di 30 persone.
La risposta dei manifestanti, tutti di origine indigena o meticcia, è stata questa: l’ossigeno già scarseggiava nel Paese, ed inoltre ai posti di blocco era stato dato l’ordine di far passare tutto il materiale sanitario.
Oltre ai simpatizzanti del Mas sono stati protagonisti dei blocchi anche quelli di Felipe Quispe, storico leader aymara che richiede da sempre la secessione della ex regione incaica del Kollasuyo dalla Bolivia ( cosa che non ha mancato di fare anche questa volta) e a sua volta oppositore sia di Arce e Morales che di Añez. L’approvazione di una legge che fissa come improrogabile la data del 18 ottobre sembra aver ora calmato le acque.
La presidente Jeanine Añez è in carica da quando Morales, accusato di aver organizzato una frode elettorale nel 2019, è stato costretto alle dimissioni e alla fuga. La si accusa da più parti di non essere in grado di garantire la pacificazione del Paese avendo tradito l’iniziale promessa di non candidarsi alle presidenziali del 2020 e dopo aver preso decisioni in politica estera secondo alcuni non confacenti ad un governo di sola transizione.
Anche la sua gestione dell’epidemia è sotto attacco, visto anche il caso di corruzione riguardante la fornitura di ventilatori polmonari dall’estero acquistati con un prezzo fortemente maggiorato rispetto a quello di mercato.
Ma soprattutto pendono sul suo governo pesanti accuse di violazione dei diritti umani a proposito delle quali, sempre tra luglio e agosto, sono usciti due report ad opera dell’Università di Harvard e di Amnesty International.
I ricercatori dei due enti accusano Añez e i suoi ministri di aver tollerato uno spropositato uso della forza militare in occasione delle proteste contro il loro governo avvenute a Sacaba e Senkata nel novembre 2019. In tali occasioni si sono contati 23 morti e 230 feriti, che secondo l’esecutivo sarebbero da addebitarsi agli stessi manifestanti.
Harvard e Amnesty riportano invece numerose testimonianze di partecipanti a quelli eventi secondo le quali l’esercito boliviano avrebbe sparato contro di loro «come fossero animali», come tra l’altro titola il lavoro statunitense.
Inoltre i due rapporti denunciano una forte limitazione della libertà di stampa, una persecuzione giudiziaria contro gli appartenenti al Mas e una ripresa della violenza razzista contro le persone di origine indigena che sembrava essersi calmata negli anni di Morales.
Il rapporto di Amnesty, comunque, si sofferma anche sulle responsabilità del Mas nella violenza avvenuta durante questa crisi e negli anni ad essa precedenti. Entrambi gli enti, infine, raccomandano che il governo faccia accurate investigazioni su tutti questi fatti.
Ma il ministero della Giustizia ha liquidato il rapporto di Harvard come “tendenzioso” e il principale quotidiano pro- governativo, El Deber, ha pubblicato un editoriale in cui denuncia una presunta faziosità di entrambi i report.
I problemi che la Bolivia sta vivendo hanno radici molto profonde.
Il Paese è da sempre in una “guerra civile latente”, come la descrive il giornalista Fernando Molina, tra le popolazioni indigene che si sentono sottomesse e le elíte bianche che si sentono depositarie uniche della ragione. Che ciò che ha spodestato Morales sia stato un colpo di Stato o piuttosto, sempre nelle parole di Molina, una “rivoluzione conservatrice”, l’ultima tensione non è stata che uno degli episodi di questo conflitto sempre sul punto di esplodere.