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Il vasto pubblico si accorse di lui solo nel 1982, anche se era parlamentare da quasi vent’anni ed era stato ministro, prima dell’Industria, poi del Commercio con l’estero, infine per il Mezzogiorno, lungo quasi tutti gli anni ‘ 70. Il nuovo segretario della balena bianca, nato a Nusco novant’anni fa tondi, era un democristiano fuori dalla norma. Più giovane dei suoi predecessori, Flaminio Piccoli il Doroteo e prima di lui Benigno Zaccagnini, “l’onesto Zac”, stroncato umanamente e politicamente dalla tragedia Moro. Sfoggiava i basettoni lunghi come si erano portati nei ‘ 70 e che già stavano scivolando nel démodé, un accento irpino che nemmeno decenni di scuole di dizione sarebbero riusciti a domare. Poi, quando mai si era visto un segretario scudocrociato vantarsi della sua grintosa aggressività, in un partito dove la faccia da sacrestia era la norma a meno che non si potesse ostentare il sussiego pensoso dell’accademico?
Un po’ era lo spirito dei tempi, imposto a forza da Bettino Craxi della cui “grinta” i giornali discettavano ogni giorno, e ci voleva qualcuno altrettanto capace di fare il muso duro per tenere botta. Un po’ il leader dei basisti, la corrente di sinistra fondata da nel 1953 con la benedizione del potentissimo Enrico Mattei, grintoso lo era sul serio e il duello tra lui e Craxi avrebbe risolto innumerevoli giornate ai cronisti politici degli anni ‘ 80, impegnati a discettare quale dei due potesse vantare attributi più cospicui. Equanime, proprio De Mita avrebbe anni dopo appianato la contesa: «Avevamo entrambi le palle».
A differenza di Forze Nuove, l’altra anima della sinistra Dc guidata da Carlo Donat-Cattin, che dialogava con la sinistra sociale e sindacale ma di quella politica non voleva sentir parlare, i basisti un rapporto con il Pci lo cercavano, lo invocavano, lo proponevano. Quasi fresco d’elezione alla Camera, nel ‘ 66, già proponeva di lavorare gomito a gomito con i rossi per realizzare il sempre rinviato dettato costituzionale sule Regioni. Tre anni e un sottosegretariato agli Interni più tardi ci rifaceva alzando la posta: nuovo patto costituzionale con il Pci, e non con quello rabbonito di Enrico Berlinguer ma con quello ancora un po’ ruggente di Luigi Longo.
Per le masse, in quell’ 82 segnato dal primo governo a guida non democristiana della storia repubblicana, quella del repubblicano Giovanni Spadolini, dalla imprevistissima vittoria ai mondiali, e dall’irresistibile ascesa di Bettino Craxi, il volto di Ciriano De Mita era quasi ignoto. Nel partito invece lo conoscevano benissimo: nel ‘ 69 aveva fatto le scarpe a Flaminio Piccoli assicurando la segreteria ad Arnaldo Forlani, poi dal ‘ 73 aveva iniziato a saltare da un ministero all’altro, ogni volta allargando la propria sfera di potere. Il termine “clientela” lo detestava. La pratica invece sapeva praticarla come pochi. Ancora oggi chiunque passi in autostrada dalle parti di Avellino, con quella serie di svincoli che nemmeno a New York City, non manca mai di citare il benemerito a cui si deve tanto: «Ah, De Mita».
Il terremoto in Irpinia dell’ 80 permise l’erogazione di fondi come se al tremore della terra si fosse accompagnato un diluvio di miliardi: i paesi colpiti furono cento, quelli risarciti sette volte tanto. Indro Montanelli, che lo detestava, andò giù pesante con l’ironia. «E’ un intellettuale della Magna Grecia», cinguettava l’avvocato Agnelli, allora uomo più potente del paese, seguito a ruota da Bettino e poi dallo stesso intellettuale irpino. «Cosa c’entri la Grecia non lo so» replicava il maledetto toscano, principe del giornalismo italiano.
Non che De Mita guardasse solo alla natìa provincia. Fu lui a promuovere per primo Romano Prodi, affidandogli la guida dell’Iri nell’ 82, e ancora lui indirizzò la carriera dell’attuale capo dello Stato prima insistendo per un suo maggior impegno politico diretto, poi, nell’ 84, incaricando proprio Sergio Mattarella di commissariare la Dc palermitana per ripulirla dalla cricca di Vito Ciancimino. Ma certo i natali irpini non erano un handicap negli anni dell’onnipotenza demitiana: Nicola Mancino, Biagio Agnes, Antonio Maccanico, Gerardo Bianco, in realtà un amico- nemico. E poi, naturalmente, il giovane di fiducia e per un po’ quasi delfino, Clemente Mastella da Ceppaloni. Ancora pochi anni fa Berlusconi e Fidel Confalonieri ricordavano ridacchiando le lunghe ore di anticamera a cui erano costretti prima che don Clemente, proconsole di De Mita in Rai, si degnasse di riceverli.
L’uomo del dialogo con il Pci conquistò la segreteria Dc, grazie a un capolavoro tattico di scomposizione di tutte le correnti avverse, nel momento peggiore per i suoi obiettivi. La solidarietà nazionale era morta e sepolta. L’uomo del giorno con cui la Dc doveva fare conti e alleanze era Craxi, La prima prova elettorale, nell’ 83, fu una batosta che il segretario resse da fuoriclasse, come avrebbe segnalato senza falsa modestia lui stesso facendo il paragone con il comportamento di Veltroni 25 anni più tardi: «Salii sul palco da solo e dissi che ero il responsabile della sconfitta. Non mi feci scortare dal gruppo dirigente come ha fatto Veltroni». Vero è che con il primo segretario del Pd l’irpino aveva il dente avvelenato. Lo aveva rottamato, per raggiunti limiti d’età, negandogli la candidatura nel nuovo partito e costringendolo così a una lunga diaspora tra gruppi e gruppetti centristi che non si è ancora conclusa.
Il patto che avrebbe segnato il corso della politica italiana per tutti gli ‘ 80 fu stretto in un convento di suore sull’Appia antica in un mattino del 1983. Al riapro da sguardi indiscreti, e allora qualche volta si riuscivano a mantenere segreti i patti della crostata dell’epoca, De Mita e Craxi raggiunsero l’accordo che avrebbe portato il leader socialista alla guida del governo in cambio della promessa di cedere il posto a un democristiano dopo due anni. Mallevadore di quella che in migliaia di articoli si sarebbe poi definita «la staffetta» era stato l’eterno divo Giulio Andreotti, e a siglare l’intesa doveva bastare una stretta di mano, niente di scritto, nulla di davvero vincolante. Solo un patto tra gentiluomini.
Ma i gentiluomini, si sa, in politica sono merce rara. Scaduto il biennio a lasciare il posto Craxi non ci pensò per niente. Tensioni e frecciate, trame e manovre diventarono faccende all’ordine del giorno. De Mita invocava «la staffetta». Bokassa, solo al sentirla nominare grugniva, scuoteva le spallone, faceva le facce, evitava commenti e tirava avanti come se niente fosse. Finì con Craxi disarcionato, nell’ 86, e anche se Cossiga gli restituì subito l’incarico Bettino non perdonò mai quella crisi che aveva interrotto la sua corsa nel momento di massimo successo.
Ricominciò l’eterna litania della staffetta e di nuovo Craxi svicolò per un po’ salvo sbottare alla fine in tv, intervistato da Minoli: «Non c’è nessuna staffetta». In questi casi “chi ha le palle” non si può tirare indietro. De Mita stavolta provocò la crisi a stretto giro, con tanto di elezioni anticipate immediate e inevitabili.
Il duello mortale non portò fortuna a nessuno dei due. De Mita fu sbalzato dalla segreteria e sostituito da Forlani che con Andreotti e Craxi diede vita a quella specie di triumvirato che avrebbe accompagnato l Prima Repubblica sin nella fossa. Ma anche Bettino s’incamminò sul viale del tramonto politico. Tangentopoli lo travolse pochi anni dopo mentre lasciò illeso, caso quasi unico tra i grandi leader della Dc, l’uomo di Nusco, nel frattempo nominato presidente di una delle tante bicamerali che hanno provato inutilmente a riscrivere la Carta prima che tentassero la stessa sfida, più brutalmente, a colpi di maggioranza, ma senza miglior fortuna, prima Berlusconi e poi Renzi.
Anche dopo la tempesta De Mita è rimasto saldo sul palco della politica ma da comprimario, non da protagonista. Così, quando alla vigilia del referendum sulla riforma costituzionale di Renzi, proprio lui, vicino ai novanta, fu scelto per incrociare le lame col gagliardo giovanotto di Rignano sembrò davvero che non ci fosse partita. Invece ko finì il ragazzo, non l’ottuagenario, inchiodato dalle argomentazioni ma ancor più dalla dignità del vecchio leader, che seppe sfruttare i tentativi di colpi bassi del premier in carica per farlo apparire subdolo e tendenzioso.
Perché in realtà tra Gianni Agnelli e Indro Montanelli era il primo ad andare più vicino alla verità. Con quei «ragionamendi» tortuosi, a volte incomprensibili persino nell’eloquio ma sempre sottili, che ai bei tempi amava illustrare ai cronisti prendendoli sotto braccio e trascinandoli in interminabili traversate del transatlantico, Ciriaco De Mita era ed è davvero «un intellettuale della magna Grecia». Uno dei campioni di quella politica che dosava ragionamenti profondi e bassa cucina, visione strategica e pragmatismo che era, nella sua gloria e nelle sue aberrazioni, l’anima della Democrazia cristiana.