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Il congiunto del “Congiunto”, secondo l’imbarazzante linguaggio del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, occupa la più alta carica dello Stato, l’unica a possedere un’aurea di sacralità ( pregasi Di Maio e il Dibba prendere appunti), per la vicenda politica e umana di Piersanti Mattarella. Non sapere di Piersanti, il fratello grande di Sergio, attuale presidente della Repubblica, non significa quindi disconoscere vicende di sagre familiari e/ o parentele eccellenti ( che sarebbe perfino un merito) ma non possedere nel proprio bagaglio una delle radici più significative della storia della Repubblica.
La radice degli anni Ottanta che ha unito in un groviglio tragico ed eroico le vite di personaggi come Cesare Terranova e Dalla Chiesa, Bachelet e Walter Tobagi, Pio La Torre e Giovanni Falcone, Boris Giuliano e Gaetano Costa, Basile e Borsellino e tanti altri, per non dire delle vite divorate bestie mafiosa e terroristica, donne e uomini delle scorte e/ o impegnati nelle indagini, fino a semplici e coraggiosi cittadini impegnati a far muro per difendere la Repubblica.
Luciano Violante, osservatore privilegiato di quegli anni, avrebbe successivamente testimoniato: «Ci sentivamo molto impegnati, questo il mio ricordo, in una lotta per la democrazia … l’impressione era che un sistema di poteri separati e illegittimi, cogliendo l’occasione di un’assenza di strategia da parte dei partiti maggiori, ne approfittasse». Piersanti Mattarella fu uno di quegli eroi ed ebbe un ruolo di assoluto rilievo. Ucciso toccò al fratello più giovane Sergio ( minore di sei anni), caricarsi la responsabilità di raccoglierne l’eredità e lo fece spezzando una scelta di vita fin lì interamente dedicata agli studi giuridici. Chi conobbe Sergio Mattarella negli anni successivi alla sua tragedia familiare, nonostante la sua riservatezza, non ebbe dubbi sulla sofferenza e il senso del dovere di quella scelta, improvvisa e immediata come lo sgorgare del sangue di Piersanti sulla macchina da cui Sergio, con la cognata e la propria moglie, le sorelle Irma e Maria Chiazzese che avevano sposato i fratelli Mattarella, lo tirò fuori per una corsa disperata e inutile verso il pronto soccorso di Villa Sofia a Palermo dove Piersanti morì subito.
Non erano ancora terminati i festeggiamenti del nuovo anno quando un po’ dopo le 12,50 di quel 6 gennaio 1980, vigilia attesissima della lotteria di Fantastico, spettacolo condotto da Beppe Grillo e Loretta Goggi, arriva l’Ansa: «Un giovane, con un complice, uccide con sei colpi di pistola calibro 38 special il presidente della Regione Sicilia, il Dc on. Piersanti Mattarella ( 45 anni) e ferisce alle mani la moglie, Irma Chiazzese, che ha cercato di prodalle teggere il marito. L’attentato avviene a viale della libertà, mentre Piersanti Mattarella, con sua moglie, i figli Bernardo e Maria, la cognata Maria Chiazzese, sta tornando a casa in automobile dopo essere stato alla messa».
«Con la morte di Mattarella – scriverà Antonio Calabrò, scrittore giornalista e già direttore editoriale di Sole24 nel suo illuminante “I mille morti di Palermo, Mondadori 2016– s’interrompe la brillante carriera politica di un uomo che avrebbe presto potuto prendere il posto di Aldo Moro, ai vertici della Dc e forse, a Palazzo Chigi, alla guida del governo nazionale», un giudizio assolutamente equilibrato, che rilancia valutazioni del tempo fondate sullo svolgimento degli avvenimenti di quegli anni.
Piersanti viene ammazzato molto probabilmente grazie a una sinergia tra Cosa nostra e terrorismo nero. Giovanni Falcone firmando l’indagine sui rapporti tra mafia e neofascismo accusa Valerio “Giusva” Fioravanti, riconosciuto anche dalla moglie di Mattarella, il killer “nero” collegato alla banda della Magliana e ad altri episodi di terrorismo nero. Ma questa parte dell’indagine di Falcone, non viene ritenuta sufficiente per la condanna di Fioravanti che, invece, arriva per l’intera Commissione di Cosa nostra capeggiata da Totò Riina. L’identità dell’assassino di Piersanti farà parte dei misteri di quegli anni. Un dettaglio significativo per capire il valore e il retroscena politico, di straordinario spessore connesso all’omicidio.
Piersanti dev’essere apparso come un matto a Cosa nostra e ai notabili del potere siciliano che montano e smontano affari e carriere, poteri ed appalti in un giro vorticoso e miliardario dove si entra accettando le regole del gioco in gran parte fissate dalla mafia. Non ha fatto in tempo a mettere piede nella stanza più importante di Palazzo d’Orleans che chiede al Comune di Palermo di bloccare un appalto ( 6 miliardi di lire, siamo nel 1978!) per la costruzione di alcune scuole. Un’iniziativa che alla fine svelerà che l’appalto era truccato ( allora, a Palermo, quasi la norma) e non a caso era stato vinto da un gruppo d’imprese capeggiato da Rosario Spatola, cugino di Totuccio Inzerillo e amico di Stefano Bontade, uomini importanti del mondo di Cosa nostra magnificamente introdotti nelle stanze più potenti del Comune di Palermo, dove Vito Ciancimino faceva il giorno e la notte. Come non bastasse vuole riformare gli investimenti regionali in agricoltura. Ancora: manovra per far saltare l’assessore ai lavori pubblici della Regione guidato da un parlamentare del Pri non insensibile alle pressioni mafio- malavitose.
Ma Piersanti non era un matto. Aveva perfetta consapevolezza dei rischi che correva. Commemorando all’Assemblea regionale l’assassinio del giudice Terranova e del suo autista Lenin Mancuso, aveva scandito: «Oggi avvertiamo un senso di profonda preoccupazione e di inquietudine, non solo per la gravità di quel che accade in questa città, ma anche per il verificarsi di una specie di assuefazione a fatti di violenza come questi, per il verificarsi di una sorte di fuga dalla coscienza, come se questi fossero fatti ed episodi isolati che appartengono a poche persone». Siamo a fine settembre del 1979. Mancano meno di quattro mesi alla morte di Piersanti. Lui sa che non si tratta di poche persone e non ha intenzione di fuggire dalla propria coscienza. Per questo oltre al fronte del rinnovamento in Sicilia ne ha aperto un altro nazionale che tende a indebolire e scardinare il vecchio ceto politico siciliano a partire dal quello del proprio partito. Ha parlato a Roma con Benigno Zaccagnini, segretario nazionale della Dc, per aprire uno scontro con la parte arretrata Dc e punta a recuperare la tradizione e il lascito dei cattolici democratici che in Sicilia ha una storia importante da Sturzo fino allo stesso padre di Piersanti e Sergio, il più volte ministro Bernardo. Un intervento che non piace alla Dc di don Vito Ciancimino. Padre Pintacuda testimonierà davanti ai giudici: «Mattarella si sentiva isolato». E aggiunge: «Temeva qualcosa di estremamente grave, in quanto aveva visto interrompersi quell’area di crescente consenso, anche all’interno della Dc, che vi era stato sin dalla costituzione del suo primo gabinetto».
La reazione cresce rapidamente tra i vecchi padroni di Palermo. Piersanti se ne rende conto. Ma anziché gettare la spugna cerca soluzioni a favore della sua terra. A Roma informa il ministro dell’Interno, Virginio Rognoni. Tornato a Palermo chiama nella propria stanza il proprio capo gabinetto, l’unica persona di cui si fida e le dice testualmente: «Le sto dicendo una cosa che non dirò né a mia moglie né a mio fratello ( Sergio, ndr). Questa mattina sono stato con il ministro Rognoni ed ho avuto con lui un colloquio riservato sui problemi siciliani. Se dovesse succedere qualcosa di molto grave per la mia persona, si ricordi questo incontro col ministro, perché a questo incontro è da collegare quanto di grave mi potrà accadere».
Una chiara anticipazione di quel che accadrà. Rognoni dirà poi agli inquirenti: «Denunciò un quadro allarmante, l’esistenza di un establishment che ostacolava la sua intenzione di fare pulizia soprattutto nel campo degli appalti che aveva un referente politico dentro il partito ( la Dc, ndr) nella persona di Vito Ciancimino. Ma aggiunse che sarebbe andato avanti convintamente e serenamente e non si parlò di rischi o minacce per la sua persona».
Non si è saputo altro sull’esecuzione di Mattarella. Ed è questo il particolare più illuminante della vicenda. Francesco Crescimanno, legale di fiducia della famiglia Matterella ha spiegato in Cassazione: «Il delitto del presidente della Regione appartiene a una fascia di estrema delicatezza politica, seconda per gravità solo al delitto di Aldo Moro: e per essere interamente attribuito alla mafia è curioso che all’interno di Cosa nostra non circolino molte notizie»