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I colleghi di partito la chiamavano “Tina vagante” perchè sfuggiva a qualsiasi ordine di corrente. Imprevedibile, indipendente e poco incline ai compromessi, Tina Anselmi era abituata ad essere la prima e ad aprire la strada agli altri. Ma soprattutto, era abituata a correre. Lo aveva imparato appena sedicenne, nella sua Castelfranco veneto dove il padre socialista venne presto perseguitato dai fascisti. E aveva scelto la direzione in cui correre l’anno dopo, nel 1944, quando i nazifascisti costrinsero lei e altri studenti dell’istituto magistrale di Bassano del Grappa ad assistere all’impiccagione nel viale alberato della città di trentuno prigionieri. Da quel momento, prese parte attivamente alla resistenza nella brigata Cesare Battisti: nome di battaglia, Gabriella. Si era sempre occupata di lavoro, Tina Anselmi. Da quando si era iscritta alla Democrazia Cristiana e poi dopo, prima nella Cgil e poi nella Cisl, il suo mondo era stato quello delle battaglia per il lavoro e le pari opportunità. Eppure, dopo tre mandati da sottosegretario al ministero del Lavoro, il partito decise di spostarla: “Tina al ministero della Sanità” e prima donna ministro della Repubblica italiana. Lei però era perplessa. Visse lo spostamento dal Lavoro alla Sanità come un declassamento e confidò al suo assistente, Enzo Giaccotto: “Vuol dire che faremo una vacanza”. Invece, quei diciannove mesi dal 1978 al 1979 nei governi Andreotti IV e V furono tutti una corsa. Tre giorni dopo l’insediamento del quarto governo Andreotti - il secondo con l’appoggio esterno del Partito comunista - le Brigate Rosse rapirono il presidente Dc Aldo Moro. In questo clima di tensione nel Paese, Anselmi si trovò per le mani la peggiore grana per una ministra, donna e cattolica, nell’Italia post-sessantottina. Sulla sua scrivania al ministero dell’Eur, infatti, arrivò la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza. Approvata il 22 maggio 1978 dopo una lunga battaglia del Partito Radicale insieme ai partiti laici, ai socialisti e al Pci, ora aspettava solo la firma di una ministra che, da parlamentare democristiana, aveva votato contro. Subì fortissime pressioni del mondo cattolico e provenienti da Oltretevere, nella speranza di convincerla a tenere nel cassetto la legge. Invece, Anselmi confermò l’origine del suo soprannome: nemmeno il Papa poteva farle derogare dal suo preciso dovere di ministra e dunque firmare una legge regolarmente approvata dalle Camere. Intanto, sempre nel 1978, in commissione Sanità arrivò la legge Basaglia. Anselmi, che presiedeva i lavori, assistette alla discussione: i malati di mente sono o meno cittadini e, come tali, godono dei diritti costituzionali? La legge per la chiusura dei manicomi, infatti, avrebbe restituito i diritti anche agli affetti da malattie mentali. Anselmi prese la parola, affermando che “l’articolo 32 della Costituzione vale per tutti, anche per i matti”. Così, il 13 maggio 1978 venne approvata la legge in tema di accertamenti e trattamenti sanitari e obbligatori. Rimase in vigore pochi mesi, però, perché nello stesso anno Anselmi si era data un obiettivo ancora più ambizioso che inglobava anche la legge Basaglia. Languiva in Parlamento da ben 14 anni la riforma della Sanità, quella che avrebbe dovuto superare il sistema mutualistico e adeguare il sistema sanitario alla Costituzione e dunque al principio della salute come bene universale e gratuito, decentrando il potere per affidarlo alle Regioni ed erodendo così il potere e i margini di profitto delle strutture private. Per questo, la riforma venne molto osteggiata anche da una parte dei medici, oltre che dagli enti di cura privati. Eppure, Anselmi corse ancora e si giovò del particolarissimo quadro politico di quel governo, che si reggeva sull’appoggio esterno dei comunisti. Lei comunista non lo era mai stata, ma era amica stretta, noncurante delle ostilità di partito, della presidente della Camera Nilde Iotti. Per approvare la sua riforma trovò in Giovanni Berlinguer, allora ministro ombra della Sanità per il Pci, il suo interlocutore privilegiato e insieme costruirono l’accordo. Proprio questa iniziativa venne guardata con sospetto dalla Dc, sia nella corrente andreottiana di destra che tra i dorotei di Moro. La definirono un “salto nel buio” e in molti pregarono “Tina vagante” di annacquare la riforma. Non solo per ragioni di contenuto, ma anche perché sarebbe stata uno dei primi casi di esplicita condivisione legislativa tra democristiani e comunisti. Invece, la legge che istituiva il SSN, il Servizio Sanitario Nazionale, arrivò in Parlamento il 23 dicembre 1978, con la previsione dell’entrata in vigore del nuovo sistema il 1 luglio 1980. Nel suo discorso alla Camera, quel giorno, la ministra Anselmi fu chiara nel rendere esplicito il fatto che la riforma era frutto del sentire ampio del paese: “La riforma è frutto dell’iniziativa del movimento operaio, rappresentato sia dalle organizzazioni sindacali che dai partiti della sinistra, partito comunista e partito socialista” e istituisce quattro principi cardine: “Globalità delle prestazioni, universalità dei destinatari, eguaglianza del trattamento, rispetto della dignità e della libertà della persona”. La lunga stagione politica di Tina Anselmi non finì con la caduta dell’Andreotti V, nel 1979. Fu eletta deputata, sempre nella sua circoscrizione Venezia-Treviso, fino al 1992. Dopo la parentesi al ministero, fu l’amica Nilde Iotti a consegnarle una delle pagine più buie della storia della Repubblica: nel 1981, venne nominata presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sulla Loggia P2. E, prima della morte nella sua Castelfranco Veneto nel 2016, venne più volte presa in considerazione per la carica di Presidente della Repubblica. Il suo nome, però, rimarrà sempre legato alla riforma che ha trasformato quello italiano in uno dei sistemi sanitari più all’avanguardia ed efficienti del mondo. Lei, in un’intervista del 2003, raccontò così quella corsa all’approvazione: «Devo dire che in quegli anni, segnati da posizioni molto diversificate, sicuramente c’era lo scontro. E tuttavia esisteva un’adesione di fondo a quel principio sul quale è stata costruita la riforma del Sistema sanitario italiano: l’adesione ai valori su cui costruire la tutela e il diritto del cittadino ad avere una garanzia da parte dello stato per quanto riguarda la sua integrità. Per costruire un sistema che assumesse, come suo valore fondante, la tutela della persona».