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Dalla giudeofobia al moderno antisemitismo, in mezzo mille anni di pregiudizi e persecuzioni in cui l’odio per gli ebrei si è diffuso a macchia d’olio e si è trasmesso, di generazione in generazione, alla fibra più profonda della nazione.
Per poi uscire fuori, a fiammate improvvise nel corso della Storia, come una belva balza fuori dall’antro per smembrare la sua preda.
La Francia galleggia nell’antisemitismo come in un brodo primordiale. Le croci uncinate nei cimiteri ebraici, le sinagoghe profanate, gli sfregi ai reduci della Shoah, le stelle gialle sui negozi, le aggressioni verbali e fisiche, gli schizzi di letame ideologico da parte di alcuni esponenti dei gilet gialli, insomma tutta l’escalation di atti antisemiti che stanno infestando la patria dei diritti dell’uomo (oltre seimila, più 75% in un anno) affonda le radici in una cultura estesa, in un “senso comune” che viene da lontano.
Non solo giudeofobia cristiana, non solo ostilità verso il popolo “deicida” che paga con la diaspora la crocifissione di Gesù.
L’avversione per gli ebrei ha pervaso anche il pensiero degli intellettuali e dei filosofi dell’illuminismo; non solo la destra nazionalista e fascistoide del caso Dreyfus, non solo i vigliacchi collaborazionisti del regime Vichy, ad alimentare la fame della belva hanno contribuito anche figure della gauche socialista e repubblicana, con il benestare o addirittura con il sostegno attivo della popolazione.
Inizialmente fu una questione di religione e la Francia non fece che seguire la corrente che spinse gli ebrei nel ghetto in tutta Europa, il loro monoteismo intransigente, l’ermetismo delle pratiche, il nucleo irriducibile del loro credo erano ritenuti incompatibili con le esigenze del potere temporale della Chiesa e con la sua vocazione evangelica; l’unica salvezza era la conversione ma in questo la Spagna della Santa inquisizione fu molto più brutale della Francia, perseguitando con tenacia la sua comunità, i suoi marranos come venivano chiamati gli ebrei convertiti che in privato continuavano ad osservare il proprio culto.
E’ solo all’inizio del XIV secolo che l’emarginazione assume le forme della persecuzione con il re Filippo il Bello che espelle i juifs dal territorio confiscando i loro crediti da usura e i loro beni che vengono messi all’asta. Non è una rappresaglia religiosa - fino a pochi anni prima Filippo era in affari con diversi commercianti ebrei- ma un atto di opportunismo e avidità che si serve anche del pregiudizio ideologico nei confronti di mercanti e di banchieri che lavorano per interessi “stranieri” o comunque estranei a quelli del popolo.
Insondabili nel loro credo spirituale, inarrestabili nella loro capacità di creare reticoli complessi di ricchezza: la mitologia dell’ebreo infido dalle mani nodose e il naso arcuato che si arricchisce con i suoi commerci obliqui ai danni della comunità si alimenta nei secoli, si impasta con l’odio dei cristiani, cattolici e riformati, contagia le idee anche delle menti più stimabili e sofisticate della loro epoca.
Fanno davvero impressione in tal senso le considerazioni abiette di Voltaire (padre delle Lumières e del moderno concetto di tolleranza) nelle forme e nei contenuti espressi sul celebre Dictionaire Philosophique: «In loro vedrete soltanto un popolo ignorante e barbaro che unisce da sempre l’avarizia più sordida alla superstizione più detestabile» , un popolo «rampante nell’infelicità e insolente nella prosperità» (Essai sur le Moeurs).
Anche quando si tratta di gettare fango contro i musulmani, Voltaire si accanisce sui loro fratelli maggiori: «Proprio come gli ebrei sono posseduti dalla brama di conquista, senza generosità, senza clemenza, senza ospitalità». E così le persecuzioni subite sono nient’altro che la conseguenza di questa «natura» deviata che influenza il loro infausto destino: «Se gli ebrei volevano conquistare il mondo e sono diventati degli asserviti la colpa è soltanto la loro».
Stereotipi, luoghi comuni, maldicenze, ormai l’odio è codificato e inoculato nell’opinione pubblica.
Al punto che persino socialisti utopisti come Pierre-Joseph Proudhon e Charles Fourier ci lasciano pagine degne di un propagandista del Terzo Reich. Guardate cosa scrive nei Carnets il gentile sognatore Proudhon, sentimentale filosofo “della miseria”: «Bisogna opporsi a questa razza che avvelena tutto e si infiltra ovunque senza mai fondersi con nessun popolo; bisogna abolire le sinagoghe e impedire loro di lavorare, fino a vietare del tutto il loro culto. Non è per nulla che i cristiani li chiamano deicidi: gli ebrei sono i nemici del genere umano, la loro razza deve essere mandata in Asia o al limite sterminata».
Meno estremo ma ugualmente ostile Fourier, inventore del “falansterio”: «La nazione ebraica non è civilizzata, è patriarcale, non ha sovrano e crede lodevole ogni furberia, si dedica esclusivamente ai traffici, all’usura e alle depravazioni mercantili. Ogni governo dovrebbe costringere gli ebrei al lavoro produttivo e accettarli solo in minima percentuale» (OEuvres complètes).
Nel XIXesimo secolo con l’esplosione del capitalismo industriale si modellano i tratti dell’antisemitismo contemporaneo che scioglie le antiche credenze misogiudaiche del cristianesimo nell’immagine complottista dell’ebreo burattinaio che, mosso dalla cupidigia, muove le fila dell’economia mondiale, lo stesso figuro che, per dirla con lo storico dell’ 800 Jules Michelet «ha un’unica patria: la borsa di Londra. E un’unica radice: la terra dell’oro» (Le Peuple).
E che dire di Jean Jaures, fondatore del partito socialista francese che ne La question juive en Algérie fustiga «l’infaticabile attività commerciale con la quale a poco a poco si accaparrano della ricchezza, delle funzioni amministrative e del potere pubblico: in Francia l’influenza politica degli ebrei è enorme ma indiretta, non si esercita con la forza del numero ma con quella del denaro, sono una razza sottile, concentrata ma divorata dalla febbre del guadagno e che maneggia con facilità i meccanismi di rapina, di menzogna e di estorsione del capitalismo».
Il caso Dreyfus, scoppiato qualche anno dopo scuote la Francia, l’antisemitismo violento e carognesco delle classi dirigenti della Terza Repubblica, è come un terremoto che fa rinsavire di colpo molti intellettuali e uomini politici, tra cui proprio Jaures il quale diventa un appassionato sostenitore dell’ufficiale ebreo accusato ingiustamente di tradimento.
Lo stesso Emile Zola, autore del celebre J’accuse in difesa di Dreyfus, appena tre anni prima ne L’Argent descriveva gli ebrei servendosi di stereotipi da fisiognomica nazista: «Era tutta un’ebreitudine malferma, delle facce grasse e unte, dei profili scavati da uccelli voraci, una straordinaria riunione di grossi nasi, vicini l’uno all’altro come su una preda».
Ma il buon esito dell’affaire Dreyfus non fa che rimandare la temperie di qualche decennio. L’occupazione nazista e la nascita del regime fantoccio di Vichy che sarà responsabile della deportazione di 75mila ebrei nei campi di sterminio nazisti coagula tutte queste tendenze.
L’autore che più le incarna nella sua tragica letterarietà è Louis Ferdinand Céline, sublime scrittore e antisemita feroce, ai limiti del fanatismo, al punto da predicare la necessità di eliminare fisicamente tutti gli ebrei dalla faccia della terra. Nelle cupe e scioccanti pagine di Bagatelle pour un massacre Céline annega negli abissi del razzismo biologico: «L’ebreo è come un negro, la razza semita non esiste, è un’invenzione dei massoni, l’ebreo è il prodotto dell’incrocio dei negri e dei barbari asiatici».
La soluzione? L’autore di Voyage au bout de la nuit non si vergogna di esporla ne L’Ecole des Cadavres, pubblicato nel 1938 l’anno successivo alle Bagatelle, 24 mesi prima dell’insediamento del generale Pétain a Vichy: «Questi ibridi, questi mostri razziali devono sparire. Nell’allevamento umano sono un bluff, una cosa a parte, dei bastardi cancerosi, dei parassiti inassimilabili, sono qui per la nostra infelicità e non ci portano che infelicità». Proprio come Voltaire anche Céline attribuisce le loro disgrazie alla loro natura malvagia: «Gli ariani non hanno mai perseguitato gli ebrei, gli ebrei si perseguitano da soli».
La fine del nazifascismo e la scoperta sconvolgente dell’Olocausto apriranno gli occhi al mondo sulle persecuzioni ai danni degli ebrei. La società che nasce dalle macerie della Seconda guerra mondiale relega l’antisemitismo in un angolo buio della politica e dal dopoguerra il vessillo viene agitato quasi unicamente agitato dall’estrema destra nazionalista e clericale.
Almeno fino all’irruzione della questione palestinese nel dibattito pubblico (e nelle nevrosi di molti intellettuali); le posizioni anti- israeliane da parte della sinistra radicale e della comunità musulmana tratteggiano una nuova forma di avversione verso gli ebrei che prende il nome di antisionismo: nella sua versione più radicale ed essenzialista si oppone all’esistenza stessa dello Stato ebraico e in quella più “politica” contesta il suo espansionismo territoriale ai danni degli arabi. Concettualmente antisemitismo e antisionismo non sono sinonimi in quanto quest’ultimo non ha connotazioni razziali o culturali, ma nell’uso comune lo slittamento tra i due termini avviene regolarmente.
Oggi i due personaggi pubblici francesi più accesamente antisemiti provengono entrambi dalle file della sinistra, per così dire, antisionista : il comico Dieudonné e lo scrittore e polemista Alain Soral. Ex militante comunista poi passato al Front National, Soral è stato addirittura condannato lo scorso 17 gennaio a un anno di prigione per incitamento all’odio razziale nei confronti degli ebrei definiti sul suo sito internet (seguito da centinaia di migliaia di seguaci) «esseri odiosi e manipolatori».
Quanto a Dieudonné, il comico di origine antillese nasce in una famiglia di sinistra e da giovane frequenta lui stesso i gruppi universitari di gauche iniziando a scrivere spettacoli teatrali antirazzisti in cui critica il trattamento dei neri e degli arabi da parte della Francia post- colonialista e prende le parti della popolazione kanaka della Nuova Caledonia. Convertito all’islam, comincia ad attaccare Israele e gli ebrei, spingendosi sempre più oltre.
Anche lui è stato condannato per incitazione all’odio razziale e per apologia di terrorismo (prese le parti del jihadista Amedi Coulibaly autore della strage al supermercato ebraico di Parigi lo stesso giorno della strage nella redazione di Charlie Hebdo). Gran tifoso del regime iraniano, ha anche inventato un gesto, la quenelle, una specie di saluto nazista al contrario diventato virale tra i suoi fan e negli anni si è avvicinato al partito di Marine Le Pen.
Sia Soral che Dieudonné hanno nel tempo affinato le tecniche per aggirare la legge e l’espediente più efficace è sostituire il termine «ebreo», con «sionista». A volte con effetti grotteschi come è accaduto a Dieudonné che, intervistato da una televisione iraniana, ha avuto il coraggio di affermare con sprezzo della Storia: «I sionisti hanno ucciso Gesù cristo»
E’ proprio in virtù di questo slittamento che l’aggressione avvenuta sabato scorso a Parigi nei confronti del filosofo ebreo Alain Finkelkraut da parte di un piccolo gruppo di gilet gialli non può essere derubricata a semplice schermaglia anti- israeliana: «Merda antisionista, la Francia è nostra» hanno gridato gli esagitati contro Finkelkraut.
Ma nostra di chi? Dei non ebrei naturalmente, anche se oggi è più conveniente chiamarli sionisti.