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Guardo il divano di pelle nera, la credenza, la libreria, con i libri ancora in ordine. Penso: «chissà cosa leggono?» Poi mi correggo: «Chissà se sono sopravvissuti». Il palazzo è sventrato, nel senso che tutta una facciata è andata giù, e dalla strada si vedono gli appartamenti. Alcuni sono vuoti, chissà. Altri sono come erano il giorno dell’esplosione, e mi sembra osceno violare - guardando quell’interrotta intimità. Quindi abbasso lo sguardo e vado dritta.
I libanesi si irritano quando gli si dice che sono resilienti. Ti dicono: we are not resilient, we are numb - non siamo resilienti, siamo intorpiditi. Ma, ai nostri occhi, sembra altro. Mezza città è stata spazzata via, si dice che questa esplosione sia la terza per potenza dopo Hiroshima e Nagasaki. Di certo, venendo, non avevo percezione della distruzione che avrei trovato: esplosione, si, ma cosa vuol dire in concreto? 300.000 persone senza casa, si, ma sarà vero?
E’ vero. Certe strade sembrano uscire da Il Pianista di Polanski. In queste condizioni, la reazione della gente mi sbalordisce. Tutti si danno da fare, sorridono. Ad ogni angolo c’è un banchetto che offre acqua e cibo. Per ogni dove ci sono ragazzi che spostano le macerie e spazzano per terra - dai piccoli scout dodicenni, ai giovanottoni immigrati dal sud- sudan e oggi auto- raccolti in squadre di aiuto. In 10 giorni la città è stata completamente ripulita. L’unico segno dello shock collettivo è il silenzio nelle strade, pur affollate, che normalmente rigurgiterebbero suoni, odori, colori.
Le strade, loro si, sembrano anestetizzate - come se fossero un’entità vivente che ancora non realizza che una parte di sé è perduta. Delle case, restano solo mucchi di macerie contorte. Io mi vergogno delle mie paturnie banali, del bagaglio che ancora non è arrivato, dei vestiti che indosso da tre giorni, delle piccole cose che mi mancano e danno sui nervi. E sono ammirata dalla gente che vedo. Tutti sono gentili - anche se hanno perso tutto - e vogliono parlare di quello che è successo, hanno bisogno di raccontare. Il rapporto con i giornalisti è quasi di analisi; la gente li cerca e trova liberatorio rivivere con loro il trauma, abbozzare prospettive, analisi, teorie. Forse, trova anche un po’ di forza nell’ammirazione che legge nei loro occhi. Così mi pare, almeno.
Quando dico: «Non sono giornalista, sono avvocato, però scriverò la vostra storia sul giornale degli avvocati» mi guardano pieni di simpatia. «Un avvocato!» dicono. «Servono gli avvocati a capire cosa è successo, quante e quali regole sono state violate al porto, e perché!» Posso dirlo o fa retorica? Ho un brivido d’orgoglio per la nostra professione. E’ bello sentirsi dire: «Servite a qualche cosa» ; è bello poter pensare : «Sì, effettivamente, noi abbiamo una competenza vera. Regole alla mano, siamo in grado di valutare se c’è stata colpa o dolo». E la differenza fra colpa e dolo - è ovvio - avrà delle ripercussioni politiche grandissime. Ma ci si arriverà? Qualcuno lo farà davvero? In Libano ne dubitano tutti.
C’è da dire che ancora si sa pochissimo, e quello che si sa non è neanche certo. Lo stesso governo - nella successione di ministri dimissionari e di arresti non ha dato una versione ufficiale. «Non si esclude niente», è il refrain di tutti; ma persino questa par condicio scontenta e viene vista come un modo per prendere tempo, per attutire le responsabilità aspettando che le acque si calmino. Le tesi in campo sono principalmente due, pur con alcune varianti. La prima: è stato un terribile incidente. Per una serie di circostanze sfortunate, si sarebbe incendiato un carico di fuochi artificiali e quel calore avrebbe fatto esplodere il nitrato d’ammonio negligentemente stipato in un magazzino da sei anni. La seconda: c’è stato un atto di guerra. Israele avrebbe colpito con un missile un carico di armi di Hezbollah, e sarebbe stato questo a fare esplodere il nitrato d’ammonio. Questa tesi ha due varianti: Israele avrebbe colpito proprio il nitrato d’ammonio, perché sottratto poco a poco dal porto da Hezbollah per preparate esplosivi, oppure: il nitrato d’ammonio non c’entra, in quel magazzino erano nascosti dei missili.
Ma cosa si sa?
Sostanzialmente, si sa che c’è stata un’esplosione, 170 morti, 7000 feriti, 300mila sfollati, centinaia di migliaia di miracolati che non sono stati coinvolti per un soffio. Ciascuna famiglia fa il suo conto: «… Mio figlio, tre anni, era proprio sotto la parete che gli è crollata addosso, ma è stato centrato dalla finestra e si è salvato. Poi ha pianto per tre giorni» ; «… Io sono corsa sotto lo stipite della porta, come facevamo durante i bombardamenti, ma lo stipite si è staccato insieme a tutta la parete. Ho fatto un balzo in avanti e mi ha preso solo il lembo della gonna» ; «… Mia moglie ha sentito il ru- more, ha capito da dove veniva, ha preso la bimba, si è buttata dietro un’auto, sono cadute le macerie ma l’auto ha fatto da scudo… dopo poche ore le abbiamo recuperate». Certe storie mi fanno rabbrividire: «Nonna ha visto il ragazzo che sanguinava, non c’erano più bende, più stoffa, non c’era più niente per fermare il sangue. Gridava aiuto ma i feriti erano troppi. Così è entrata in un ufficio che era esploso, ha preso una pinzatrice e gli ha chiuso le ferite graffettandole con i punti di metallo…». In tutti i racconti c’è una costante: la guerra. Sappiamo cosa è la guerra. Siamo cresciuti con la guerra. Sappiamo come reagire alla guerra.
Il Libano è stato in guerra dal 1975 al 1990, con diversi episodi e forze in campo; e poi ancora nel 2006 con Israele. La generazione degli adulti di oggi è nata e cresciuta con la guerra, e ne ha una percezione particolare: è insieme lo stato normale delle cose e la peggiore delle sciagure. Questo cambia completamente la visione del mondo e l’approccio alla vita. Lo spettro di un nuovo conflitto era agitato già sei mesi fa, con convergenze comuni. Si diceva: Israele ha interesse ad annientare gli Hezbollah, che si vantano apertamente di un arsenale militare ormai composto da centinaia di missili, e il governo del Libano ha interesse a distrarre verso il “nemico sionista” lo scontento dei giovani che chiedono più trasparenza e meno corruzione. Per questo la tesi dell’attacco israeliano al porto e l’enorme esplosione - compatibile con quella di un arsenale militare trova tanto credito. Ma, se fosse questa la verità, cosa succederebbe?
«La guerra» dico «credete davvero che ci sarà una guerra?» Si stringono nelle spalle, e continuiamo il conto delle cose che sappiamo, e di quelle che non sappiamo. Sappiamo che, prima dell’esplosione, c’è stato un forte rumore, che quel rumore quasi tutti lo hanno sentito, e quasi tutti lo hanno attribuito a un aereo militare. Sappiamo che nessuno ha visto l’aere e che non c’è alcun filmato ( ne è stato diffuso uno, ma sembra che sia un montaggio). Sappiamo che il forte rumore potrebbe essere conseguenza di un risucchio d’aria dovuto all’ incendio che ha provocato un’esplosione. Non sappiamo se Israele abbia veramente diffuso un messaggio sui social alle 17.30 dicendo : «La giusta lezione per Hezbollah» perché, anche se decine di persone giurano di avere visto il post, sui social non ce n’è traccia e nessuno ha fatto lo screenshot. Sappiano che qualcuno stava facendo una saldatura da cui si dice sia partito l’incendio al magazzino dei fuochi artificiali. Non sappiamo perché è stata presa una foto di un operaio che faceva una saldatura al porto. Non sappiamo di chi era il carico di fuochi artificiali e perché non siano stati ritirati e stoccati adeguatamente dal proprietario, invece che conservati in un luogo inadatto per umidità e salsedine.
Sappiamo che c’era un magazzino in cui erano stoccate molte tonnellate di nitrato d’ammonio, e che questa sostanza può essere utilizzata sia come fertilizzante che come esplosivo. Sappiamo che faceva parte di un carico sequestrato a una nave georgiana e diretta in Mozambico, che è rimasto nel magazzino per sei anni, e che nessuno l’ha mai reclamato pur se valeva milioni. Non sappiamo perché le autorità non abbiano rintracciato il proprietario, se non altro per chiedere le spese di custodia. Non sappiamo se è stato sottoposto a sequestro secondo le procedure di legge, oppure se era rimasto “nascosto” e, in questo caso, perché. Sappiamo che il nitrato d’ammonio esplode solo ad altissime temperature quando è compresso allo stato gassoso. Non sappiamo se, pur in grandi quantità, esplodendo può avere un impatto così devastante come quello avuto. Sappiamo che, anche se esploso, deve lasciare residui nell’aria e nel terreno. Non sappiamo se ci sono. «Sappiamo» dice un amico «che la catastrofe poteva essere molto peggiore: se non fosse accaduta ad agosto, con la città mezza vuota; se non ci fosse stato il silos del grano, che ha attutito l’onda d’urto verso est; se non ci fosse stato il vento che ha spinto i fumi tossici verso il mare invece che verso la città».
Tutti si stringono nelle spalle e aprono un’altra bottiglia di bianco. Lo so: molti immaginano Beirut come una città abitata da pazzi che girano con una kefiah in testa e si fanno esplodere al mercato. Ma non è così. E’ una città bellissima, piena di vita, di cultura, di diversità, e anche di attenzione sociale. Piena persino di localini carini dove bere un buon bicchiere, come quello in cui sono io: Le Grand Meshmosh. «Sappiamo» continua un’ altra amica, versando i bicchieri «che nessuna commissione internazionale accerterà un fatto, se può avere gravi ripercussioni geopolitiche». Cominciamo a bere. «Sappiamo» chiude la terza amica al secondo sorso «che potrebbe anche essere meglio così. Le conseguenze sarebbero peggio dell’atto». Questo mi fa fare un balzo sulla sedia. Ma come? Tutte queste parole, questo ricostruire, questo confrontarsi, per poi dire che è meglio non sapere?
Cosa ne è della giustizia, della verità? E’ questa la lezione del dolore?
«E’ questa la lezione della guerra», interviene un signore anziano che ci ha sentiti dall’inizio «ma è una lezione che conosce solo chi la guerra l’ha vissuta». Poi dice: la guerra deve essere solo la risposta estrema. Poi, se c‘è da fare, si fa. Dice proprio così, portando il pollice a toccare l’indice e agitando la mano. E io? Io mi sto zitta. Appartengo - come tutti noi europei - a una generazione fortunata che non pensa ad un aereo da guerra se sente un rumore; che non vive nella paura che un giorno o l’altro gli esploderà la casa; che non ha messo in conto che i suoi cari muoiano ammazzati, così, senza ragione. Certo che mi sto zitta. E che ne so? Ma mai come oggi sento di avere una grande fortuna- una fortuna che non dipende da me, e di cui godo senza merito, ogni giorno della mia vita e senza rendermene conto: la pace. Ne sono grata. Per questo, anche se non c’è una diretta connessione, mi sembra che il minimo che possa fare sia pagare il giro da bere a tutti, compreso il vecchio. Il brindisi lo taccio, tanto qui si fa poco, ma nella mia mente ce l’ho ben presente: e quindi alzo il calice.