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Come scriveva Jacques Derrida in Spectre de Marx all’indomani della caduta del Muro di Berlino, non sarà affatto facile liberarsi di Lui. Soprattutto per i “vincitori”, i suoi giubilanti nemici che, per dirla con Freud, «vivono la fase oscena e trionfante del lutto» e «fanno decomporre il cadavere in un luogo sicuro perché esso non ritorni più».
Certo, ti puoi liberare di un cadavere, ma non puoi seppellire quello che è stato, puoi organizzare un funerale ma non puoi cancellare i ricordi degli invitati.
Così lui, il filosofo di Treviri, il giornalista, il militante rivoluzionario, continua ad aggirarsi per il mondo, quasi a mimare quel co- munismo annunciato nel folgorante incipit del
Manifesto. E lo fa sotto forma di spettro, un chiassoso poltergeist rimosso e annidato nell’inconscio collettivo dal quale però affiora a lampi, a intermittenze. Derrida ha anche coniato una disciplina immaginaria per descrivere questa presenza spettrale: la hantologie, termine che si potrebbe tradurre in modo grossolano con “scienza dell’incombenza” di cui voleva comporre, per l’appunto, un’ “antologia” da integrare a una «psicoanalisi del campo politico».
Perché il marxismo è qualcosa che incombe, che volteggia minaccioso sulla testa dei suoi avversari ma anche su quelle dei “pentiti” e prende corpo nelle disuguaglianze, nell’immutata dialettica dominati- dominanti, nell’incapacità del sistema economico di garantire ricchezza e benessere a tutti, nei limiti del capitalismo, delle sue contraddizioni permanenti, certificate proprio dallo spettro marxiano. Un pensiero così potente e decisivo nella storia dell’umanità, al pari di Newton, Darwin e Freud, che la stessa tragedia del Socialismo reale non è riuscita a macchiare di sangue. Se esiste un incolpevole nel vortice di idealismo, passioni, ferocia e potere che è stata la storia del comunismo quello è sicuramente il suo fondatore.
Anche perché la “Fine della Storia” evocata da Francis Fukuyama era poco più che una sciocchezza new age, una puerile autocelebrazione smentita dalla crisi acuta della globalizzazione, dall’insorgere del populismo in tutto l’Occidente, dale nuove guerre, dal terrorismo, dalla povertà tutt’altro che debellata.
Per questo il fantasma di Marx può continuare ad aggirarsi per il mondo leggero come una farfalla e pungente come un ape. Simile a uno spirito hegeliano della Rivoluzione o a quello del padre di Amleto, il re avvelenato nei giardini di Elsinora che gli appare con addosso l’armatura che aveva quando era ancora in guerra, chiedendogli di compiere la vendetta. E Amleto, che a differenza degli eroi delle tragedie greche è un uomo moderno e scisso, si danna e si macera per quella fastidiosa ingiunzione, per il gravoso compito di rimettere le cose nel verso giusto, di ristabilire la giustizia.
La stessa ingiunzione marxista che è «un’eredità senza testamento» rivolta alla cattiva coscienza di tutti gli umani; Derrida sceglie Amleto e non Edipo, la coscienza colpevole al posto della coscienza tragica e imbrigliata nell’ineluttabilità del fato ( superiore anche agli Dei) e, come Shaekspeare con il principe di Danimarca, fa della psicanalisi uno strumento di conoscenza politica la cui verità affiora proprio dalle sembianze oscure e inquietanti di uno spettro.