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Raccontano che la seconda fase, quella più organizzata e scientifica, cominciò quasi per caso a San Basilio nel 1970. Periferia romana rigorosamente falce e martello, ben più su della media nazionale con i comunisti al 27% e la Dc al 40. I rossi preparavano il grande assalto al potere scudocrociato, Berlinguer sarebbe arrivato di lì a poco a Botteghe Oscure e nel ‘ 76 avrebbe fatto il botto al 34,4%, a poche incollature dalla Democrazia cristiana.
A San Basilio Andreotti era tutto tranne che popolare. Una visita in trasferta, certamente inaspettata, che assunse subito per i pci un sapore provocatorio, al di là delle intenzioni. La Dc osava aprire una sede al Lotto 16, che sarebbe come se un laziale aprisse un banchetto di magliette biancazzurre in curva Sud. C’era tensione e uno strano plebeo, dall’apparenza balorda, meno rosso degli altri diede generosamente asilo al sor Giulio in casa sua, un appartamento modesto, una famiglia modestissima, in attesa che l’aria diventasse più respirabile e meno minacciosa. Andreotti, allora capogruppo dc alla Camera, apprezzò il gesto dell’ospite. Se ne andò mettendosi a disposizione, se la famiglia “avesse avuto bisogno di qualcosa”, riconoscente. Lo ebbe, il bisogno. E lui ne tenne conto. Dicono che quello fu l’inizio della fase due.
“Se si può dare un mano bisogna farlo”: lo pensava da sempre il presidente. Da quel giorno smise di essere solo un samaritano all’impronta. E per i successivi 43 anni cercò di pianificare.
Poveri, bisognosi, sfortunati, barboni, bussavano alla porta in diversi modi. Si presentavano alle 6 del mattino quando Giulio andava a messa o, se la saltava, la sera alle 18,30. Si passavano parola. Antonio De Luca, carabiniere, appuntato scelto qualifica speciale, otto anni e mezzo passati col senatore a vita, la soprannominò scherzosamente la “ditta Berardi, la mattina presto e la sera tardi”. Al convento delle suore in via in Lucina, nella chiesetta senza testimoni o compagnia, erano soli lui, l’officiante e le suorine. Oppure a San Giovanni dei Fiorentini, proprio dietro la casa di via Paoli. O ancora in piazza Capranica, dinanzi al seminario dei frati da dove erano usciti ben due papi, l’ultimo dei quali fu il cardinal Montini, Paolo VI. O anche al Gesù.
Lui non li chiamava poveri né bisognosi, tantomeno mendicanti, ma, con quella ironia che imperversava nel dna, “i clienti”. “Fate entrare i clienti”: dopo la messa, gli aficionados, quelli che il capocorrente, ministro e presidente, conosceva ormai di persona o su presentazione, facevano la fila nei weekend in ufficio, al quarto piano di San Lorenzo in Lucina. Durante la settimana invece lo spazio era lasciato ai clientes di seconda fascia, per le elemosine brevi manu. Lì non c’era bisogno di conoscere sua eminenza Andreotti. Il cardinale Angelini lo chiamava così, “il mio amico Giulio, l’unico cardinale laico”.
I poveretti venivano dai dormitori della Caritas o dai giacigli di strada e sapevano a che ora Andreotti andava in chiesa. Qualcuno lo beccava all’ingresso, altri all’uscita. Andreotti tirava fuori dalla borsa una mazzetta di biglietti da 5 euro o i cartoncini di monete da 2 euro e distribuiva. Una volta, certo, erano lire, tagli di carta anche da 10 e 20mila. Ci pensava la segretaria a prenotare i contanti. A volte Giulio si faceva aiutare dagli uomini della scorta per accelerare la distribuzione.
Ad un certo punto si accorse che quelli che venivano accontentati prima della messa sparivano appena intascato l’obolo. “Allora cambiò la regola”, racconta Antonio. “Ci disse: diamoglieli alla fine così almeno sentono messa”. La media era una ventina di poveretti al giorno, un centinaio gli euro spicci. “Chi ha veramente bisogno non ha paura di alzarsi presto”, commentava il presidente, ragionamento che valeva anche per i giornalisti che chiedevano interviste. L’orario ne scremava parecchi, diciamo i più.
Mario Stanganelli del Messaggero lo sapeva e si presentava davanti alla chiesa all’alba, anche senza appuntamento. Non tornava quasi mai a mani vuote. Nemmeno quando in pieno inverno si addormentò nel tepore della sua auto appannata e Andreotti bussò al finestrino: “Che fa, Stanganelli, dorme? Lo sa che se fosse un militare sarebbe violata consegna?”. Beneficienza culturale, diciamo.
In piazza in Lucina il discorso nei weekend era diverso. Col passare degli anni e il crescere dei bisogni aiutare i clienti stava diventando complicato. E soprattutto era difficile capire se i contanti venissero utilizzati per pagare le bollette, i buffi, l’affitto, il companatico, aiutare un malato, una pensione troppo minima, oppure usati per qualcosa di più lussurioso e non indispensabile.
Prima delle opere di bene serviva un’opera di intelligence. La signora Enea, mitica segretaria di Giulio per un trentennio, era la regina dell’ufficio. I primi libri del capo lo copiò in carta velina. Venne avvicendata dalla dottoressa Lina Vido, una anziana funzionaria, per 43 anni di stanza a Bruxelles, che Giulio si portò a Roma per aiutarlo in ufficio. Scelta azzeccata. Veniva dalla Valtellina ma avrebbe potuto essere tedesca: i politici li aveva incontrati tutti, li conosceva a menadito. Non usava computer, quello era il suo cervello, ma la vecchia gloriosa Olivetti: si informava sui clienti, analizzava i nuovi, abilissima nello spionaggio per evitare al suo capo sbagli e imbarazzi. Riusciva ad avere informazioni su chiunque. Dicono che non chiese mai uno stipendio, diceva che le bastava la pensione di Bruxelles.
Le altre due segretarie stavano al Senato, anch’esse bravissime, Daniela Bellucci e Patrizia Chilelli, 18 anni con lui: erano le uniche capaci di decifrare le zampe di gallina che componevano i libri, i “Visti da vicino” e tutto il resto della bibliografia andreottiana, più i discorsi, gli interventi.... A loro toccava organizzare la vita pubblica del senatore, un lavoraccio.
Se veniva invitato alla presentazione di un libro Andreotti non andava mai e poi mai senza averlo letto. Si preparava. Ma accettava solo se il libro gli era piaciuto, altrimenti “per sopraggiunti impegni” declinava scusandosi.
A Piazza in Lucina si presentavano una quarantina di clienti divisi tra sabato e domeniche mattina. Avevano spesso consuetudine col presidente. Raccontavano le vicissitudini di famiglia, i bisogni, le difficoltà. Ma brevemente, che c’era la fila. Lui non indagava, anche se certe volte le richieste potevano apparire bizzarre, il look era tutto tranne che dimesso, e ci sarebbe voluto magari un supplemento d’indagine. Ma c’era Lina a vigilare. La scorta si faceva venire qualche dubbio. Presidente, ma tutti questi soldi...? E lui: “Guarda che è molto più difficile chiedere che dare”.
Un inverno, sarà stato il 2007, un anziano si infilò in ascensore mentre stavano salendo in ufficio. “Giulio, Giulio - chiamava - ti avevo chiesto un appuntamento”.” Ho avuto molti impegni....”. E quello parlava. Finito il confronto Andreotti chiese al carabiniere: “Ma tu lo conoscevi?”. “Presidente, se non lo conosceva lei, ci ha parlato per 20 minuti”. “Mai visto in vita mia”.
Anche con i clienti affezionati ad un certo punto Andreotti decise di cambiare metodo, quando se li ritrovava al bar Ciampini o da Velitti dopo la beneficienza, per un cappuccino o un aperitivo. Allora decise di abolire i contanti: portassero le bollette, le fatture, al pagamento ci avrebbe pensato lui. Avrebbero poi avuto indietro le ricevute timbrate. Luce, gas, telefono, rate findomestic per pagare il dentista, bollettini d’ogni genere: l’aiuto era concreto ma controllato. Famiglie conosciute, amici di amici, sempre in difficoltà, ma mai presentati da politici o da colleghi di partito. Tutti sconosciuti ma elettori affezionati del presidente.
Non chiedeva mai conto o il perché: “Vi aiuto”. Alle spalle vigilava Lina. Se Giulio per un paio di mesi non li vedeva più, sia in chiesa che in ufficio, allora chiedeva notizie, si informava se fosse successo qualcosa. Alla posta a pagare le bollette andava Rocco di Cesare, pensionato e autista, un ex della Guardia di Finanza. Fedelissimo. Naturalmente Andreotti gli pagava la benzina e pretendeva di pagare il pieno anche all’Arma, alla sua scorta dei carabinieri “perché non voleva pesare sulle casse dello Stato”. Si comprava anche le medicine senza chiedere la ricetta gratuita: “Chi ha i soldi è giusto che paghi”.
A fine mese, Giulio si dedicava a fare beneficienza al clero, a preti, frati e suore, girando per conventi, con la busta in tasca. Anche le suorine di clausura si facevano osservare volentieri per ricevere il finanziamento in contanti, scodinzolanti. Gli elettori si coltivano così. Non a caso alle elezioni il presidente superava agevolmente le 300 mila preferenze.
Gli aneddoti sono infiniti, ma alcuni ne descrivono bene carattere e pensiero del Giulio familiare e privato Al congresso eucaristico col cardinale Tettamanzi una persona poco trascendente chiese: Dio esiste da oltre duemila anni ma in tutte le cose bruttissime che accadono, non crede che ci entri anche Gesù? Il cardinale laico rispose: “Che c’entra, pure il sapone esiste da tanti anni e c’è gente che ancora non si lava. Ma la colpa non è mica del sapone”. Parabole moderne. Raccontano quando durante gli anni del terrorismo sotto casa c’era la vigilanza. Donna Livia, la moglie di Giulio, si preoccupò che facesse così freddo quel Natale, e il 26 di dicembre comprò alla scorta dei giubbotti ben imbottiti. Ci riuscì anche se il negozio era chiuso. Potenza del cognome e del cuore. Altruismo che la signora Livia usava anche per riavvicinare i militari e farli trasferire in famiglia nei paesi d’origine per risparmiare sull’affitto, che a Roma è troppo caro.
Con la moglie e gli amici più stretti Livia e Giulio giocavano a carte, a burraco o a scala quaranta. Un giorno Livia telefonò ad un’amica dalla macchina: “Ma sei sicura che ho vinto io? Ma no, ti devo io dei soldi”. Ma no, ma sì, un minuetto. Il bello è che dopo ore si vincevano al massimo un paio di euro. Alla fine della lunga chiacchierata muliebre Andreotti commentò secco col ghigno ironico d’ordinanza: “Con questa telefonata i due euro li hai rimessi in gioco”.
Sapeva anche essere ironico con tenerezza. Dovevano andare lui e Livia ad Ostia antica a teatro e premiare Rita Levi Montalcini. C’era da fare un lungo tratto a piedi e Giulio sbottò preoccupato: “Non si può, poveretta, invece di premiarla, così finisce che la commemoriamo”.
Successe che uscendo di casa in inverno il presidente dimenticasse il portafoglio. La scorta lo fece rientrare in portineria, per proteggerlo dal gelo, lui si sedette lì avvolto nel cappotto e col cappello ben calcato sulla testa, quando arrivò un addetto della Tnt a consegnare un pacco. Non lo riconobbe e gli fece a bruciapelo: “Che fai, lo piji te sto pacco?”. Giulio- portiere imperterrito firmò la ricevuta e lasciò pure la mancia. Il classico caso di “lei non sa chi era lui”. Altri tempi, ora vengono in mente i vip che non danno un centesimo di mancia ai ponyexpress che consegnano la cena o la pizza a casa per quattro soldi.
Giulio odiava l’aereo, amava il treno che gli dava tempo di leggere. “Lo accusavano di essere un cinico, ma noi che stavamo accanto lo vedevamo sempre gentile, educato, mai sopra le righe. L’uomo era questo, da politico forse devi essere diverso”, nota Antonio. L’unico problema per lui carabiniere fu che tifa Lazio. Venne perdonato così :“Non tutte le ciambelle riescono col buco”.
Nei momenti bui e più difficili a Giulio venivano sempre in aiuto ironia e disincanto. Al funerale di Cossiga, sincero: “Era un grande amico, un fratello”. Pausa. “Finché andiamo ai funerali degli altri va sempre tutto bene”. Amen. E finché fai beneficienza gli elettori continuano a votarti. C’era dunque il divo Giulio, altruista e, segretamente, silenzioso benefattore. Poi dicono che c’era Belzebù, ma quella è tutta un’altra storia.