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Furono le prime elezioni anticipate nella storia della Repubblica, anche se l’eccezione sarebbe di lì in poi diventata norma. Quando gli elettori si recarono alle urne, il 7 maggio 1972, erano passati solo quattro anni dalle ultime elezioni politiche, ma sembrava che fossero invece 40 e passa. La Repubblica era cambiata più di quanto fosse mai successo in precedenza e a un ritmo tanto accelerato da seminare panico e paura.
La prima prova elettorale politica dopo il ‘ 69 operaio e un ciclo di lotte e movimenti sociali dilagato in ogni anfratto della società era segnata dalla reazione di chi quella trasformazione la aveva subìta in silenzio ma pieno di rancore per chi seminava disordine.
L’anno precedente, in una tornata parziale di elezioni amministrative, il Msi di Giorgio Almirante ( cioè il partito post- fascista) aveva raggiunto risultati superiori a quelli che avrebbe toccato, oltre vent’anni dopo, Gianfranco Fini con la sua ripulita Alleanza nazionale. Era prevedibile e ampiamente previsto che avrebbe bissato il successone il 7 maggio. Anche per questo, del resto, la Dc aveva brigato, cercando di non farlo vedere troppo, per il voto anticipato. I cervelloni di piazza del Gesù, non troppo diversi da quelli di oggi, avevano calcolato che con un anno difficile davanti l’emorragia a favore dei nostalgici sarebbe stata ancora più probabile e corposa. Ma le elezioni anticipate, per la verità, le avevano volute in molti e il Pci forse più di ogni altro. In parte minima per bruciare i dissidenti del manifesto, che miravano a portare una loro lista e, dopo le sorprese a ripetizione degli anni precedenti nelle fabbriche nelle università e nelle piazze, nessuno poteva dire se sarebbero stati temibili o insignificanti. Ma soprattutto i comunisti volevano cogliere la preziosa occasione per dribblare quel referendum sul divorzio che temevano e che avrebbero cercato di evitare, anche a costo di svendere la sostanza della legge, sino all’ultimo.
Nelle precedenti elezioni, 1968, nonostante la rivolta degli studenti e nonostante i primi segnali di conflittualità operaia, l’Italia era ancora un Paese tranquillo. Passata la ' congiuntura' di metà decennio, l’economia aveva ripeso a tirare, le fabbriche del nord assumevano a valanga giovani meridionali, le occupazioni e gli scontri tra studenti e polizia turbavano, già, ma nemmeno troppo.
L’Italia del ‘ 72 era quella della bomba di piazza Fontana e della montatura anarchica contro Pietro Valpreda, il ballerino anarchico che stava in galera da oltre due anni mentre il castello di accuse contro di lui si sgretolava travolgendo anche la credibilità dello Stato. Era un paese dove i morti in piazza erano tornati a essere frequenti. Era il paese del tentato golpe- Borghese e della più lunga rivolta metropolitana nella storia italiana e probabilmente europea, quella di Reggio Calabria, gestita dai neofascisti anche per l’assenza della sinistra storica.
In quattro anni la sicurezza aveva scalato la classifica dei problemi più avvertiti dagli elettori e il Msi ci lucrava sopra con perizia. I neofascisti facevano il possibile per fomentare gli scontri di piazza. Il partito d’ordine da cui gli stessi neofascisti provenivano si offriva come cura. E il gioco sembrava funzionare. I democristiani puntavano invece sulla parola d’ordine degli “opposti estremismi”, giusto per riproporre in chiave adeguata ai tempi selvaggi il proprio eterno ruolo di centro e perno non solo del sistema politico ma dell’intero assetto sociale.
Ma ad alimentare paure che poi si concentravano sul tema facile della legge e dell’ordine non c’era solo la violenza di piazza. L’economia segnava pesantemente il passo. La sonnolenta e immobile stabilità politica degli anni ‘ 60 era un lontano ricordo. Esaurita di fatto la formula del vecchio centro- sinistra, tanto più dopo la scissione del Partito socialista unificato che aveva per qualche anno tenuto insieme i socialisti e i socialdemocratici, la Dc non riusciva né a resuscitare un nuovo centrosinistra né poteva allargare a destra con il Pli. Il Pci era appena uscito da un lungo interregno, nel quale Enrico Berlinguer, segretario in pectore, aveva guidato il partito al posto del malato Luigi Longo ma senza la legittimazione della segreteria ufficiale. Nominato meno di due mesi prima del voto, non era pronto per lanciare una campagna politica in grande stile. Il suo “compromesso storico” sarebbe piombato sul Paese solo l’anno seguente.
Quell’anno la vera campagna elettorale non la fecero i leader politici ma le piazze, esaltando qualcuno, spaventando molti. L’ 11 marzo a Milano un corteo della sinistra extraparlamentare finì con scontri violenti, un attacco alla redazione del Corriere della Sera e un passante, il pensionato Giuseppe Tavecchio ammazzato da un candelotto lacrimogeno sparatogli sul collo. Capolista del manifesto era il nome che quasi tutta l’Italia aveva associato prima al mostro per antonomasia e poi sempre più all’emblema del perseguitato: Pietro Valpreda, accusato a bomba ancora calda della strage di piazza Fontana, era uscito di galera dopo oltre due anni in gennaio, per problemi di salute e soprattutto grazie a una legge, quella che portava il suo nome, che per la prima volta limitava la custodia cautelare anche per i reati gravi. Però rischiava di rientrare in galera e per questo il manifesto cercò di fargli scudo con l’immunità parlamentare.
Il 14 marzo, a camere già sciolte, uno sconosciuto venne trovato morto sotto un traliccio che si apprestava a far saltare, ucciso dalla sua stessa bomba. Era uno degli uomini più famosi d’Italia, l’editore miliardario e rivoluzionario comunista Giangiacomo Feltrinelli, fondatore dei Gap. Lo shock fu enorme e colpì a destra e a manca, anche perché molti, sbagliando, ci videro dietro lo zampino omicida dei servizi segreti. C’era chi si spaventava per i bombaroli rossi e chi per gli spioni di Stato neri.
Quella del 1972 è stata la campagna elettorale più cupa, persino più di quella di sette anni dopo, nel pieno dell’offensiva terrorista. Gli elettori moderati e conservatori, che magari non sfilavano sotto le bandiere della neocostituita “maggioranza silenziosa”, un omaggio a Nixon che quello stesso anno stravinse in America, ma ne facevano parte erano da poco approdati in un continente nuovo e inospitale, quello della paura e dello smarrimento. La conclusione fu tragica. Il 5 maggio a Pisa, durante gli scontri tra polizia e sinistra extraparlamentare che cercava di impedire un comizio del Msi, un giovanissimo anarchico, Franco Serantini, fu pestato dalla Celere. Morì due giorni dopo mentre il 93% degli elettori affollava le urne. La Dc tenne alla grande, perdendo meno di mezzo punto. Il Msi raddoppiò i consensi, ma fu un successo effimero. Il Pci restò fermo. Il manifesto invece rimase fuori del parlamento, insieme al Psiup e a un’altra lista cattolica di sinistra guidata dall’ex presidente delle Acli.
( 1- Continua)