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La stella di Bernie Sanders brillerà ancora dopo il Supermartedì nel firmamento democratico americano? Tutto fa pensare di sì. Dopo il trionfo in Nevada e nei “caucus” che lo hanno preceduto, oltre alla buona affermazione in New Hampshire, la consacrazione può venire soltanto dalle primarie che si terranno contemporaneamente in quindici Stati americani e chi uscirà vincitore sarà il candidato da battere o che, probabilmente , batterà tutti gli altri. Intanto l’atteso appuntamento è stato preceduto dalla vittoria, a sorpresa, di Joe Biden nel South Carolina dove ha staccato il suo principale concorrente di ben 30 punti, ottenendo poco meno del 50% del totale contro il 19%, mentre poco o niente hanno raccolto Warren, Klobuchar ed il miliardario Steyer che si è ritirato insieme con Buttigieg. La corsa alla nominations democratica s’è dunque riaperta.
Sanders, comunque, resta in pole position. Gli altri arrancano e, a meno di sorprese, lo stesso Biden non ha la certezza di surclassare il vecchio senatore che gli americani osservano sbigottiti come un vero e proprio “fenomeno politico” di settantotto anni. Infatti è inconsueto che un uomo della sua età e con la sua lunga carriera alle spalle se la senta di sfidare l’establishment del suo partito ed i poteri forti che appoggiano i “presidenziabili” più accreditati alla vigilia della campagna, come Biden appunto, ritenuto il favorito, ma che tuttavia mentre molti lo danno fornito, se nel Supermartedì dovesse soccombere non è escluso che abbandoni addirittura la partita.
Sanders ha sostanzialmente fatto fuori, nella prima fase, a parte la caduta nel South Carolina, quella che sembrava maggiormente in grado di attirare i consensi, Elisabeth Warren, moderatamente di sinistra, incarnazione di un partito che vuole emanciparsi dall’ombra della Clinton e spingersi più in là di quanto aveva fatto Obama, tentennante su alcuni diritti civili e poco incline a farsi portatore di una vera e propria rivoluzione sociale in grado di ridurre, attraverso la leva fiscale, i privilegi dei ricchi, visto quel che chiede la socialista Alexandra Ocasio Cortez, “pasionaria” di partito radicaleggiante che ha trovato in Sanders in suo interprete più convincente.
Il centro dei democratici, insomma, non sembra avere ancora scelto il proprio candidato tra tra Biden e la Klobuchar, mentre l’ingresso nell’agone ( martedì sarà la prima volta che competerà da candidato), di Michael Bloomberg, il plurimiliardario ex- sindaco di New York, sarà apportatore di una radicalizzazione delle posizioni nel partito che certo non favorirà la coesione.
Sanders in un discorso a San Antonio in Texas, uno degli Stati dove si voterà domani ha detto: “Abbiamo vinto il voto popolare in Iowa, abbiamo vinto le primarie in New Hampshire e i caucuses del Nevada. Vinceremo le primarie anche in Texas, vinceremo in tutto il Paese, perché gli americani sono stanchi di un presidente che dice bugie, che mette a rischio la democrazia e che non ha mai letto la Costituzione”. Quindi il senatore del Vermont, ha ribadito quali sapranno i suoi cavalli di battaglia: l’assistenza sanitaria per tutti, la lotta contro il cambiamento climatico, impegnandosi ad adottare i principi del Green New Deal, nel presupposto che trasformerà il sistema e creerà nuovi posti di lavoro.
Nessun accenno ai diritti civili, forse perché dati per acquisiti, vecchi “arnesi” dei democratici. Forse perché curiosamente sta acquisendo addirittura il consenso dei gruppi tradizionalisti cattolici per le sue nette posizioni anti globaliste e l’ avversione al turbo- capitalismo. Quando ai cattolici tridentini si chiedono le ragioni del loro endorsement pro Sanders, citano - ha scritto Mattia Ferraresi sul Foglio ( 29 febbraio - 1 marzo 2020) - il passo di di un saggio scritto da Benedetto XVI nel volume Senza radici, pubblicato in America dalla rivista Firtst Things nel 2006: «Il socialismo democratico era ed è vicino alla dottrina sociale della Chiesa ed ha in ogni caso, dato un contributo notevole alla formazione di una coscienza sociale». I cattolici progressisti, al contrario, ricordano l’incontro, ancorché per pochi minuti in Vaticano, nell’aprile 2016, di Sanders con Papa Francesco, un incontro che lo rese popolare presso quegli ambienti che guardano al pontificato di Bergoglio con crescente simpatia. Insomma, nella campagna elettorale dei democratici ha fatto irruzione, grazie ad un socialista, la Chiesa cattolica che conta moltissimo in termini elettorali, oltre che come immagine. E nessuno si aspettava che Sanders se lo sarebbero litigato tradizionalisti e progressisti. I primi sostengono la loro eccentrica posizione asserendo che il vero avversario della visione cristiana del mondo è il liberalismo, con il suo individualismo ed il suo estremismo mercatista, “allora tanto vale stare sotto l’ombrello di un socialismo all’americana, più o meno una socialdemocrazia scandinava”. Questa tesi, che sintetizza le simpatie dei tradizionalisti pro- Sanders è sostenuta da Elizabeth Bruenig, “opinionista millennial”, la definisce Ferraresi, del New York Times, supporter di Sanders secondo la quale il candidato vagheggia “un tipo di socialismo democratico orientato principalmente alla demercificazione del lavoro, alla riduzione delle vaste disuguaglianze, portate dal capitalismo, alla rottura del giogo del capitale sulla politica e sulla cultura”.
I cattolici, pro o anti- Bergoglio, hanno eletto Sanders come loro “Papa”, insomma. Un “pontefice” che è riuscito nel “miracolo”, tutto americano, di mettere insieme ciò che in nessun’altra parte del mondo riesce a convivere. Le gerarchie americane per ora non si pronunciano.
Chi si pronuncia, invece, è Bloomberg la cui visione non potrebbe essere più lontana da quella di Sanders e dai suoi nuovi e antichi sostenitori. L'ex sindaco di New York, sostenendo che è l’unico a poter battere Donald Trump, continua a respingere gli attacchi di Biden, Sander ed Elizabeth Warren. «Ho l'esperienza per fare il presidente», dice ed aggiunge che il partito democratico non è un partito socialista, guardandosi bene dall’accusare i detentori del potere economico dei quali peraltro, non ha alcun bisogno, attingendo alle proprie casse per condurre una campagna elettorale che nessun altro candidato è in grado di fare.
Sostenitore del capitalismo e del mondialismo, Boomberg è l’esatto opposto di Sanders, ma anche lontano dalla Warren e non certo vicino a Biden. Insomma, è contro tutti. Lo scorso 19 febbraio nel dibattito a Las Vegas al quale ha preso parte, sia pur non ancora da candidato, Bloomberg è sembrato scendere da un altro pianeta. E tutti lo hanno accusato di qualche nefandezza politica. Sanders ha sintetizzato le sue ragioni “rivoluzionarie” e ha attaccato duramente il nuovo arrivato ricordando la degenerazione dello stop and frisk, la misura di sicurezza messa in atto dalla polizia di New York durante gli anni dell’amministrazione Bloomberg. La Warren ha equiparato Bloomberg a Trump definendolo un «miliardario arrogante» e portando alla luce i dubbi riguardo alcuni presunti comportamenti abusivi nei confronti delle donne. Biden ha rivendicato i risultati di Obama sul tema dello stop
and frisk e ha accusato Bloomberg di non aver saputo amministrare correttamente New York City.
Bloomberg, come se le accuse non lo riguardassero, è rimasto impassibile durante il dibattito provando a rispondere ai colpi degli avversari. Così, la sua posizione di miliardario newyorchese si è trasformata nell’arma perfetta - è stato commentato dai giornali - per battere Trump e il successo delle sue imprese è diventato un asset della sua capacità amministrativa e della sua moralità.
Bloomberg ha anche provato a spostare il piano del dibattito e a tracciare la sua idea politica: l’ Obamacare, l’applicazione degli Accordi di Parigi sul clima con la completa integrazione di Cina e India nel processo, l’ aumento delle tasse per i ricchi ( ma manifestando opposizione alla tassa sulla ricchezza come pensata da Warren, vagamente comunista, come chiede Alexandra Ocasio Cortez). Il miliardario ha anche provato a spiegare lo stop and frisk e si è scusato per essersi fatto sfuggire di mano la situazione nell’applicazione delle misure di sicurezza. e ha riconosciuto di aver perso rapidamente il controllo della misura di sicurezza. Una prova convincente, ma che non ha intaccato le certezze dei sostenitori di Sanders.
Nessuno dei suoi rivali ha finora gettato la spugna. Biden è fiducioso: «Vinceremo al Super Tuesday». La Warren continua ad attaccare Bloomberg: «È il candidato più rischioso per i democratici, non può battere Trump. Non vogliamo sostituire un arrogante alla Casa Bianca con un altro arrogante. Queste elezioni non sono in vendita». Quanto alla Klobuchar, si accontenta di poco: «Come al solito, abbiamo superato le attese». Ci chiediamo: ma quanti partiti ci sono nel partito democratico?
Trump non ha rivali per la nomination. Robert O’Brien, consigliere per la Sicurezza nazionale, ha smentito l’intelligence sulle interferenze russe a favore del presidente: «Non ci sono prove che la Russia stia interferendo con le elezioni per sostenere Trump» ; ma fa capire che non sarebbe “una sorpresa” se Mosca cercasse di aiutare Sanders. Il partito democratico non è stato mai tanto diviso. Sembrano due o più partiti in uno. Neppure coalizzati. Semplicemente “nemici”. Sanders e Bloomberg appartengono a due galassie diverse, mentre non sanno bene dove girare la Warren, Biden, a parte altri minori. Secondo i sondaggi il senatore del Vermont è avanti nei sondaggi seguito da Bloomberg, poi vengono Biden e la Warren. Se non trovano un’intesa sarà rissa continua fino alla fine.
Nessuno negli Stati Uniti ricorda una spaccatura tanto profonda. Bisogna risalire al 1972, quando venne rieletto Richard Nixon. Il democratici schierarono il senatore George McGovern, della sinistra radicale, quasi un “comunista” e George Wallace, governatore dell’Alabama, segregazionista e razzista. Questi venne ferito gravemente in un attentato, e la campagna elettorale si fermò. Ma era già finita prima di cominciare. Due partiti opposti in un solo schieramento non potevano dare un presidente agli Stati Uniti. La storia si ripeterà? È probabile. Ma la sicurezza di Trump di tornare la Casa Bianca è inficiata da variabili non contemplate, cominciare dallo sfaldamento di una parte del suo elettorato che, come i cattolici progressisti e tradizionalisti, preferisce un socialista d un ipercapitalista.
Intanto il Washington Post, il cui proprietario è Jeff Bezos, presidente e amministratore delegato di Amazon, ha lanciato una campagna molto colta e raffinata sul principio di rappresentanza e sul ritorno delle èlites. Si schiera contro Bloomberg, ma non appoggia Sanders. Probabilmente non farà endorsement, ma si sta battendo per un nuovo sistema elettorale.
Chi menerà le danze dopo le elezioni del 2020? Repubblicani e Democratici sembrano appartenere al passato.